di Cosimo Sframeli

La ’ndrangheta diveniva eversiva, aggrediva lo Stato ed alcuni dei suoi simboli. In quegli avvenimenti cruciali e sanguinosi, il brigadiere Antonino Marino si giocò tutto. Con generosità, diede la vita e lo fece per qualcosa di più grande. «L’omicidio del brigadiere Antonino Marino è un atto eversivo», affermava categorico il sostituto Procuratore della Repubblica Ezio Arcadi che conduceva le indagini, «siamo fuori dai confini di un normale delitto di mafia». Era la grande mafia, quella che era scesa in campo: la mafia dei sequestri di persona. Quando l’economia criminale venne intaccata, la ’ndrangheta reagì in maniera selvaggia. Uccideva in maniera esemplare, con intento pedagogico, per bloccare chiunque volesse avventurarsi sui sentieri inesplorati degli arricchimenti illeciti dell’Anonima sequestri. Fu questa la pista seguita per l’assassinio del brigadiere dei Carabinieri, 33 anni, per il ferimento della moglie, al terzo mese di gravidanza, Rosetta Vittoria Dama, 30 anni, e del figlio Francesco di appena due anni.

 

Il brigadiere, comandante di Stazione, investigatore coscienzioso e diligente, fu punito perché di ostacolo ai disegni dell’Anonima. L’ordine di uccidere sarebbe partito da Platì, paese alle pendici dell’Aspromonte, dove aveva ricoperto l’incarico di comandante della Caserma dei Carabinieri (1983-1988). Fu ucciso la notte di domenica 9 settembre 1990. Libero dal servizio, si trovava dai suoceri a Bovalino Superiore per i festeggiamenti in onore dell’Immacolata. Era seduto fuori dal locale gestito dai parenti, intento a guardare i fuochi d’artificio che si aprivano ad ombrello su migliaia di persone, quando un giovane si avvicinò tra la folla e, da distanza ravvicinata, esplose numerosi colpi di pistola calibro 9. Sei proiettili colpirono Marino; due raggiunsero la moglie, nella traiettoria di tiro, e un altro, di striscio, ferì a una gamba anche il figlio che si trovava nel passeggino accanto al padre. Il killer, con l’arma in pugno, si allontanò a piedi accompagnato da un altro giovane che era rimasto nella piazza. Marino, gravemente ferito insieme alla moglie e al figlioletto, venne trasportato all’Ospedale di Locri. Alle 13:00, dopo un delicato quanto inutile intervento chirurgico, morì. Da due anni aveva lasciato Platì, quando si sposò con Vittoria. A quel tempo il regolamento lo imponeva, avendo sposato una donna della Locride, e fu trasferito a San Ferdinando di Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro. Nella Locride era ritornato per servizio, perché considerato «conoscitore d’area, di persone e di luoghi», in occasione del sequestro di Cesare Casella (18/1/1988 – 30/1/1990), fornendo un notevole contributo alla sua liberazione.

 

Nel 1985, durante un servizio d’istituto svolto insieme a personale del Corpo Forestale dello Stato, in località Cirella di Platì, Marino fu fatto segno da numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi da tre sconosciuti, probabilmente latitanti. L’intento fallì per motivi del tutto occasionali. Nel 1986, in località Giovambattista di Platì, sconosciuti esplosero due colpi di fucile caricato a pallettoni contro l’automezzo del Comando Stazione Carabinieri di Platì, con a bordo tre militari in perlustrazione, che rimasero illesi. Nel 1987, sui muri e sulle serrande di alcuni esercizi pubblici di Platì, comparvero frasi ingiuriose e minatorie nei confronti di Marino e del vicebrigadiere Orazio Di Martino.
Nella nuova sede, a San Ferdinando di Rosarno, non ebbe inchieste delicate tra le mani. Il cerchio si stringeva quindi nella Locride. Era impensabile che si potesse commettere un omicidio così plateale senza una regia locale. «Stiamo vagliando tutte le ipotesi, ma al centro delle indagini c’è ovviamente l’attività investigativa di Marino e i suoi quattro anni passati a Platì. Le attenzioni vengono circoscritte a Platì. È la realtà che offre questa ipotesi», ribadiva il P.M. Arcadi. «Non emergono per ora altre piste, non abbiamo altre motivazioni al delitto. Per noi Marino è stato ucciso per causa di servizio. D’altra parte, un omicidio così deve avere un movente serio».
Marino aveva indagato su tantissimi sequestri di persona e aveva collaborato a inchiodare i boss dell’Anonima di Platì. In cinque anni di permanenza nel centro jonico aveva imparato a conoscere la gente, ad accorgersi delle fortune accumulate in breve tempo e a segnalarle nelle sue relazioni. Tutto senza timore, ma consapevole di fare il proprio dovere.

Sabato 8 settembre era tornato a Bovalino Superiore in ferie, in visita ai parenti della moglie in occasione dei festeggiamenti dell’Immacolata. Ma il suo destino era stato deciso da altri. Il sicario lo colpì in maniera implacabile. Qualcuno, con macabra ironia, su un manifesto lì affisso in cui vi era il programma dei festeggiamenti, dopo il delitto, scrisse: «Ore 24: omicidio di un brigadiere».
A Bovalino Superiore si tennero i funerali, alla presenza del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Antonio Viesti, e della moglie di Marino, ancora ricoverata per le ferite d’arma da fuoco alla gamba e giunta in chiesa in barella.
Il brigadiere Antonino Marino fu decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione: «Comandante di Stazione impegnato in delicate attività investigative in aree caratterizzate da alta incidenza del fenomeno mafioso, operava con eccezionale perizia, sereno sprezzo del pericolo e incondizionata dedizione fornendo determinanti contributi fino al supremo sacrificio della vita stroncata da vile agguato. Splendido esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere. Bovalino (RC), 9 settembre 1990».
Al brigadiere è stata intitolata una piazza a Bovalino Marina e la Caserma dei Carabinieri di Platì.
Nel 2005, l’avvio di una nuova inchiesta, originata dalle dichiarazioni di un pentito e condotta dal sostituto Procuratore Generale Fulvio Rizzo, permise di ricondurre il movente dell’omicidio alle attività investigative svolte dal sottufficiale nel territorio di Platì. Nel 2014, con sentenza definitiva, la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria condannò i mandanti e gli esecutori dell’efferato delitto contro il militare dell’Arma.
Il figlio di Marino, Francesco, ferito anch’egli nell’attentato, oggi è un uomo, anche lui carabiniere. Suo padre ha appena fatto in tempo a conoscerlo, troppo poco però per lasciare ricordi. Quelli li ha dovuti costruire passo dopo passo attraverso i racconti di sua madre e dalle foto in bianco e nero sparse per casa.
E poi ci sono i racconti dei colleghi di suo padre, coloro che hanno condiviso con il brigadiere Antonino Marino i terribili anni dei sequestri di persona in Aspromonte e la lotta ai clan che avvelenavano la vita nei paesi della Locride.
Oggi Francesco Marino veste la stessa divisa dei carabinieri di suo padre, portando la sua testimonianza di figlio e di carabiniere tra i cittadini, nelle scuole perché «la memoria – afferma – è il primo passo per contrastare la criminalità organizzata».

Approfondimenti

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di Antonino Sergi

Giuseppe Benassai, pittore paesaggista, tra i più talentuosi e creativi del panorama artistico italiano ottocentesco, nasce a Reggio Calabria il 13 luglio del 1835, giovanissimo, si dedica prima al disegno e poi alla pittura sotto l’attenta guida del maestro reggino Ignazio Lavagna.
Il percorso artistico lo porta prima a Napoli, poi a Roma e successivamente a Firenze. La sua arte si fa subito notare e apprezzare dalla critica artistica, tanto da ottenere diversi premi e riconoscimenti. L’opera di Giuseppe Benassai risente del momento culturale e artistico, di quel periodo storico, segnato dalla pittura napoletana e in particolare dalla scuola artistica di Posillipo. La città di Napoli, ricca di un vivissimo e fervido cosmopolitismo, che spazia dalla pittura senese al caravaggismo, da Salvador Rosa a William Turner, è culla di una nuova e originale visione di pittura di paesaggio.
In questo stimolante contesto Benassai matura una sua personale idea di arte.
Vive da protagonista, anche, le inquietudini del periodo. Problemi sociali e contrasti ideologici creano continui e accesi tumulti nella società del tempo. Per motivi politici egli stesso è costretto a lasciare la sua città natale.

I dipinti che realizza, dal carattere fortemente romantico, esaltano la natura come espressione del divino sulla terra. Le sue grandiose visioni aspromontane stimolano pensieri ariosi e aperture mentali, dove l’uomo può perdersi nell’immensa spazialità che, superando il limite del bello classico, lo porta direttamente a contatto con l’illimitato e il sublime di scuola kantiana.
Nelle opere aspromontane, il nostro autore, esalta la bellezza dei luoghi, visti diremmo oggi, con occhio cinematografico, con inquadrature in campi lunghi, di rara e originale suggestione espressiva.
Nell’olio su tela “Vicinanze d’Aspromonte” eseguito tra 1862 e il 1863, conservato presso il Museo e Gallerie nazionali di Capodimonte a Napoli, il maestro reggino crea un’opera dallo stile unitario ricavato, mirabilmente, solo con l’utilizzo del colore prevalentemente monocromo dai toni caldi che rende l’atmosfera del dipinto palpitante e appassionatamente impetuosa. Il dipinto è presentato con diverse denominazioni: alla Promotrice di Napoli come “Paesaggio – Vicinanze d’Aspromonte” a Torino come “Montagna sopra Bagaladi e torrente di Melito (studio della Calabria).
In altre due tele “Vallata verdeggiante con greto di torrente” e “Panorama montagnoso” il maestro mette in luce una sua particolare visione dell’altopiano reggino.
In queste opere egli si allontana dallo stile pittoresco e particolareggiato per analizzare il territorio naturale attraverso vedute realizzate come fossero composizioni di forme geometrizzanti, essenziali e spoglie. L’insieme risulta delimitato semplicemente dal preciso e ondulato skyline dei monti in controluce; quasi un Cèzanne.

Nel dipinto “Mucche in Aspromonte”, va detto che l’opera fu dipinta dal Benassai nelle campagne intorno a Pisa, il pensiero artistico è rivolto al verismo, ma con una particolare visione prospettica; lo sfumato atmosferico. Realizza le montagne dello sfondo con una nuova tecnica che richiama i macchiaioli.
Nel 1868 dipinge il grande paesaggio “La Quiete”, esposto presso la Pinacoteca Civica di Reggio Calabria, qui si fa notare e ammirare per l’uso visionario della bellissima e ardita prospettica a volo d’uccello. L’artista, nell’opera, concepisce un paesaggio di pura fantasia, di grandi dimensioni, dove tutti gli elementi compositivi sono posti in maniera armoniosa così da generare nell’animo dello spettatore un senso di pace, tranquillità e quiete, da qui il nome. Al centro della composizione dipinge un laghetto, alimentato da un tortuoso ruscello, sovrastato da pareti rocciose che scendono a picco sullo specchio d’acqua sulla cui superficie si riflettono.

Sempre nella Pinacoteca Civica di Reggio Calabria è collocato il dipinto “Aspromonte”. L’opera si apre ad una visione paradisiaca dei piani aspromontani. Nella tela si evincono similitudini di sentimenti, calma e tranquillità, con “la Quiete”. La scena appare, in campo lunghissimo, come un grande fotogramma, con l’orizzonte posto leggermente al di sotto del centro del rettangolo visivo, così da dare più spazio e risalto atmosferico al cielo luminoso carico di leggere nuvole che aleggiano sul sottostante tappeto erboso dove un gruppo di pecore e bovini tranquillamente stazionano. Un dolce profilo di basse colline si staglia all’orizzonte come confine ultimo di una sconfinata scena. Lo spettatore, per effetto dei diversi piani visivi, sembra, inaspettatamente, proiettato all’interno di una visione quasi metafisica dove il senso del presente a poco a poco svanisce. Il dipinto è conosciuto, anche, come “La casetta dei forestali in Aspromonte”. Il quadro fu esposto a Torino insieme al dipinto “Veduta della Rocca e spiagge di Scilla nello stretto del Faro”.

Al pittore reggino va riconosciuto soprattutto il forte sentimento d’amore per la natura che rappresenta sempre con rispetto e puntigliosa creatività. Cantore del romanticismo crede nell’indissolubile unione tra la vita e l’arte, il pensiero e il sentimento. Dipinge le alture della montagna reggina con passione e dedizione di impegno.
Attraverso la sua arte, aperta e sensibile, dona all’Aspromonte visioni dal forte carattere simbolico e cariche di un appassionato lirismo poetico.
Giuseppe Benassai, nel 1877 è nominato Professore onorario dell’Istituto di belle Arti di Napoli e nel 1878 di quello di Parigi.
L’artista si spegne a Reggio Calabria il 5 dicembre del 1878.

Fonti

  • Dario Durbè, Giuseppe Benassai 1835-1878, C.EDI.C. 2003