di Luigi Dattola

L’Aspromonte offre spesso spettacoli naturali poco noti ai più. Da qualche decennio, però, grazie anche all’iniziativa di gruppi escursionistici organizzati, associazioni e/o di singole persone interessate al territorio calabrese per i suoi molteplici aspetti, si sta riscoprendo una Calabria poco conosciuta in ambito italiano se non addirittura nello stesso ambito regionale. A volte basta poco per riscoprire un luogo, farlo conoscere ed apprezzare sia per il suo interesse naturalistico che per quello scientifico in senso stretto.

Si trova riportato in un volume scritto da Melograni, “Descrizione geologica e statistica di Aspromonte e sue adiacenze” del 1823, di alcune miniere di rame lungo il corso del torrente Valanidi che, gestite dai tedeschi, avevano fornito minerale alle fonderie di Reggio Calabria. Tuttavia, a parte il minerale estratto dal cunicolo lungo la Stroffa, affluente del Valanidi, le ricerche non avevano dato esito ed erano state per questo abbandonate.
Tale argomento, comunque, doveva aver avuto un certo rilievo dal momento che diversi autori ne avevano fatto cenno, tra questi De Stefani nel 1883 ed Emilio Cortese, nel suo volume “Descrizione geologica della Calabria” del 1935, ancora oggi ricco di interessanti spunti per ricerche di natura geologica nel territorio calabrese.

La località si trova nelle vicinanze il centro abitato di Trunca ed era stata esplorata con rilievi di superficie e, come già accennato, attraverso la realizzazione di piccoli cunicoli scavati a mano nella dura roccia metamorfica che caratterizza i luoghi.
Fatti di questo genere, in una regione che raramente ha visto l’interesse per lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo, oggi fanno certamente notizia, immaginiamo quanto risalto abbia potuto avere 150-200 anni fa e oltre.
I racconti relativi a tali ricerche, infatti, sono ancora oggi vivi fra gli abitanti del posto, anziani o giovani che siano e si tramandano di padre in figlio come fossero leggende, qualche volta ingigantendo la realtà.
Prima ancora di avere tra le mani testi che mi facessero conoscere l’esistenza di vecchie ricerche di rame ho avuto la fortuna, in una delle mie tante esplorazioni mineralogiche, di conoscere persone del luogo che mi posero la domanda: “circati a petra virdi?”. Di lì a poco mi trovai davanti a un anziano signore che abitava nella piccola frazione di Sapone che mi diele le informazioni per raggiungere un posto “speciale”.

Le indicazioni e le descrizioni avute lasciavano facilmente intuire la possibilità di rinvenire, quantomeno, mineralizzazioni interessanti. Con le informazioni appena ricevute la mia escursione proseguì lungo il torrente e, venendo fuori da una zona invasa dalla vegetazione, mi trovai davanti uno spettacolo tanto straordinario quanto insolito: una porzione di costone roccioso dalla colorazione verde-blu molto accesa che spiccava sullo sfondo scuro. Da alcune fratture della parete rocciosa trasudava acqua ricca di composti del rame e del ferro (carbonati e solfati idrati). Poco a monte, inoltre, rinvenii azzurrite e malachite che riempivano le piccole fratture della roccia.

È evidente come ciò rappresenti un fenomeno di rilevante interesse scientifico, trattandosi di un ambiente di neoformazione per alcuni minerali che, tante volte, si cerca di ricostruire in laboratorio con costi elevati, ma anche un luogo di grosso interesse naturalistico ed estetico.
Altre volte mi sono recato sul posto a prelevare campioni da sottoporre ad analisi e per condurvi docenti dell’Università della Calabria che hanno mostrato interesse per il fenomeno. Dalle ricerche e dalle analisi compiute presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’UNICAL oggi sappiamo che, oltre alla malachite e all’azzurrite, si è identificata la calcantite la serpierite e la woodwardite, minerale esteticamente non pregevole ma raro.

Didascalie dei campioni minerali
2 Azzurrite su matrice rocciosa costituita da gneiss. Campione 15x9cm
3 Associazione di microcristalli di azzurrite. Campo inquadrato: 5mm circa
4 Microcristalli di calcantite. Campo inquadrato: 4.6mm circa

Fonti

  • Cortese E. (1934). Descrizione geologica della Calabria. Tipografia Mariano Ricci, Firenze (ristampa della I edizione del 1895).
  • De Stefani C. (1882). Escursione scientifica nella Calabria (1877-78). Jejo, Montalto e Capo Vaticano. Atti della Reale Accademia dei Lincei, serie 3, Memorie, Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, 18, pp. 3-290.
  • Melograni G. (1823). Descrizione geologica dell’Aspromonte e sue adiacenze con aggiunta di tre memorie concernenti l’origine dei vulcani, le grafiti di Olivadi e le saline delle Calabrie, nella stamperia Simoniana, Napoli.

Nei pressi interessante la Grotta della Lamia

 

Il castagno era detto l’albero del pane dei poveri o albero della vita dato che i suoi frutti sono stati per secoli un alimento fondamentale nelle regioni montane.
Da un’attenta indagine del prof. Angelo Gligora abbiamo il racconto di come nel secolo scorso anche ad Africo avesse enorme importanza la castagna, cibo fondamentale per tutto l’inverno. La presenza di un esteso castagneto comunale era una risorsa vitale per gli africoti.
Ecco quanto ci hanno raccontato ad Africo Nuovo nel novembre 2024, con dovizia di particolari, le signore Maria Nocera di Africo e Concetta Palamara di Casalnuovo (frazione di Africo), ultranovantenni, che ringraziamo per la preziosa testimonianza.
La voce rotta dall’emozione e gli occhi lucidi sono segno delle sofferenze, delle indicibili fatiche provate ad Africo dove sono nate e vissute fino all’alluvione del 1951.

“Ad Africo Vecchio c’era un grande castagneto di proprietà del Comune con delle piante secolari che per la sua qualità dava una produzione importante per poter superare il periodo invernale. Per venire incontro alle famiglie meno abbienti l’amministrazione comunale ne consentiva la raccolta senza alcun pagamento. Gli abitanti che volevano raccogliere le castagne dovevano fare domanda al Comune per avere l’assegnazione delle piante per nucleo familiare.
Il Comune nel mese di settembre incaricava un suo addetto (u stimaturi) a recarsi sul posto dove stimava e assegnava le piante di castagno in proporzione al numero dei componenti del nucleo familiare richiedente. L’estimatore nella sua funzione di persona di fiducia del Sindaco indicava anche il periodo utile per la raccolta che andava dal 1° di ottobre al 1° di novembre. Durante questo mese interi nuclei familiari, grandi e piccoli, si spostavano dal paese al castagneto che brulicava di persone intente alla meticolosa raccolta del prezioso frutto.
Dal 2 di novembre, giorno della Commemorazione dei Defunti, il Comune con i suoi uffici dava notizia che il castagneto era libero (dai vincoli precedenti), l’assegnazione alle famiglie cessava e quindi tutta la popolazione poteva raccogliere le castagne che erano rimaste sul terreno, sugli alberi e quelle che cadevano giornalmente.
Il castagneto, pertanto, si ripopolava di cittadini, che magari per aumentare la quantità già raccolta accorrevano in massa.
Dei tignanisi, gli abitanti della frazione di Casalnuovo, in pochi beneficiavano del castagneto comunale. Utilizzavano, chi li possedeva, castagni privati, fuori dal centro abitato e in posti lontani e di difficile accesso.

La castagna rappresentava un alimento indispensabile per tutta la popolazione, perché si consumava fresca durante tutto l’inverno, ma era molto importante per quanti dovevano andare a coltivare i terreni o allevare gli animali fuori dal centro abitato. Costituiva il pranzo per tutta la giornata.
Le castagne si prestavano a diversi usi: caldarroste, bollite ma principalmente infornate. Molto importante per la conservazione delle castagne fresche era la cosiddetta infossata o ‘mpossata.

Anzitutto si individuava il posto, un albero possibilmente vicino la propria casa sotto il quale si dovevano infossari le castagne. Per timore che potessero essere rubate alcuni le infossavano dentro casa facilitati dal fatto che il pavimento era in semplice terra battuta.
La conservazione avveniva con molta cura scegliendo le castagne migliori, senza intaccature e compatte. Si scavava una fossa delle dimensioni adeguate alla quantità di castagne e si portava della sabbia dalle fiumare che si disponeva nel fondo della fossa. Vi si appoggiava uno strato di castagne, si ricoprivano con la sabbia e si mettevano altre castagne. Si continuava così, alternando uno strato di castagne e uno di sabbia sino a colmare la fossa.
La corretta esecuzione del procedimento era molto importante perché faceva scivolare l’acqua piovana evitando che le castagne marcissero e conservandole per diversi mesi.
Il sistema utilizzato consentiva di avere le castagne nel periodo delle festività natalizie potendo così preparare il castagnaccio, uno dei pochi dolci che ci si poteva permettere.”

Per conoscere la pratica dell’infossata sono stati intervistati altri anziani vissuti ad Africo Vecchio tra cui Domenico Criaco detto Micciarella del ’39, Francesca Pangallo del ’34, Leo Criaco detto Cropò del ’45, Andrea Stilo del ’32, Giuseppe Criaco detto u Velenusu; Antonio Criaco detto u Centu; Domenica Morabito detta a Tabarana. Li ringraziamo tutti.

Pubblichiamo una foto aerea del 1983 dove, oltre ai ruderi di Casalnuovo in alto a sinistra e quelli di Africo in basso a destra, un quarto dell’immagine (in alto a destra) ritrae l’ampio e fitto castagneto.

Foto, descrizione e alcune piante monumentali del castagneto di Africo

Sin da bambino, ho sentito il richiamo del cielo, e col tempo, la passione per l’astronomia ha incontrato il mio amore per la natura, trasformandosi in astrofotografia. Questa forma d’arte consiste nel catturare i soggetti cosmici – galassie, nebulose e stelle lontane – raccontati attraverso la luce. Mentre nella fotografia tradizionale basta un singolo scatto, nell’astrofotografia ogni esposizione può durare ore (spesso suddivisi in molte notti), raccogliendo pazientemente fotoni che hanno viaggiato per centinaia di milioni di anni luce.
L’Aspromonte è diventato il mio osservatorio a cielo aperto, un luogo dove la terra si protende verso l’infinito e ogni notte si riempie di storie antiche e segreti cosmici. Qui, tra le sue valli selvagge e i boschi intricati, le stelle sembrano più vicine, come antichi custodi silenziosi. Le cime aspre emergono contro il cielo e la loro bellezza parla con voce muta di un tempo remoto. In queste notti solitarie, la montagna sembra respirare insieme alle stelle, avvolta in un maestoso silenzio. Durante le osservazioni notturne, talvolta, la presenza curiosa di una volpe che mi osserva da lontano, come un guardiano silenzioso della notte.

Il telescopio, fissato su una montatura equatoriale motorizzata e collegato a una fotocamera astronomica raffreddata a -10° C, (la bassa temperatura aiuta a ridurre il rumore termico generato dai pixel attivi che si riscaldano durante l’acquisizione e che si trasformerebbe in segnale indesiderato), segue con precisione l’apparente movimento delle stelle dovuto alla rotazione terrestre. Questa precisione è essenziale: senza un inseguimento accurato, le stelle apparirebbero come scie luminose.
Ogni immagine finale è il frutto di un lungo processo: le esposizioni prolungate, vengono elaborate tramite software specifici per eliminare disturbi, migliorare i dettagli e bilanciare i colori. Inoltre, è possibile acquisire dati in LRGB (luminanza, rosso, verde e blu), una combinazione che riproduce i colori in modo simile alla visione umana. Ogni fase del lavoro richiede attenzione e competenza: dalla calibrazione delle immagini alla combinazione dei diversi scatti, fino all’estrazione dei dettagli nascosti nel profondo della luce cosmica.
Questo tipo di fotografia richiede notevole pazienza, poiché si utilizzano strumenti di altissima precisione che richiedono una preparazione accurata. È fondamentale inserire le coordinate esatte del luogo di ripresa e l’orario preciso, stazionare il telescopio, e ambientarlo affinché la sua temperatura si allinei a quella esterna, eliminando le distorsioni termiche.

Tra dei miei scatti più significativi vi sono la Nebulosa Proboscide di Elefante nella costellazione di Cefeo e la Nebulosa di Orione, catturate sotto il meraviglioso cielo d’Aspromonte. Sono il risultato di 11 ore di esposizione per la prima e circa 60 ore per la seconda. Queste fotografie, pubblicate anche dalla NASA, raccontano una storia millenaria, un frammento di universo che ha viaggiato nel tempo per giungere fino a noi.
Così, l’astrofotografia diventa un viaggio tra tecnica e arte, dove ogni scatto, ogni dato e ogni ora trascorsa sotto il cielo si uniscono per raccontare l’eternità racchiusa nelle stelle ed il legame profondo che ci unisce all’universo.

 

di Giuseppe Arcidiaco

I MULINI AD ACQUA
I mulini ad acqua sono stati protagonisti dell’economia di intere generazioni della vallata del Gallico (RC). Sulle carte topografiche dell’IGMI, lungo il corso di questa fiumara, in contrada Limini, territorio compreso tra Podargoni e Santo Stefano d’Aspromonte, sono segnalati i ruderi di due mulini, riportati come mulino Limini e mulino del Principe. Insieme al mulino Zoccali, sito all’interno del centro abitato di Podargoni, essi costituiscono un’importante testimonianza delle attività di molitura che caratterizzarono queste zone dell’Aspromonte nel corso del 1800. Inoltre, alcuni frammenti di antichi manufatti in pietra segnalano la possibile presenza di almeno un’altra macchina idraulica dello stesso tipo nelle vicinanze del mulino Limini, probabilmente distrutta da una piena durante le frequenti alluvioni.

COSTRUZIONE E FUNZIONAMENTO
Tali strutture, un tempo molto diffuse e numerose, erano alimentate dall’acqua della fiumara e distribuite lungo tutto il suo corso fino alla marina di Gallico, a testimonianza di ciò, il toponimo Mulini di Calanna. I loro periodi di attività erano variabili in base alla disponibilità di acqua corrente: quelli più a monte erano funzionanti per tutto l’anno, mentre quelli siti a valle, detti mulini d’inverno, erano attivi solo nei mesi più freddi, quando l’acqua era più abbondante e copriva distanze maggiori procedendo verso la foce. Per le stesse ragioni, questi ultimi, in particolare da Mulini di Calanna in avanti, erano talvolta collegati in serie ed utilizzavano tutti la stessa acqua che così non andava persa e raggiugeva i successivi mulini. Dalla posizione geografica del mulino dipendeva anche il genere di cereali macinati: frumento, granturco, segale, cicerchia ed anche castagne.
Si trattava di mulini a ruota orizzontale, un meccanismo funzionale alla portata non costante ed imprevedibile della fiumara, molto più sicuro rispetto al modello a ruota verticale, che avrebbe implicato la costruzione del mulino molto vicino al letto del torrente, esponendolo alle piene. Infatti, per evitare gli effetti delle esondazioni tali mulini erano edificati lievemente in altura, abbastanza lontani dalla fiumara ed il terreno sottostante era rinforzato da muri a secco. A monte del mulino, la presa d’acqua era costituita da un acquedotto (gora, mastra) che intercettava l’acqua prelevandola dal corso del torrente (o di suoi affluenti) ed alimentava una profonda cisterna (saetta), mantenendo sempre un adeguato livello d’acqua al suo interno. Il flusso, uscente da due ugelli posti alla base di tale serbatoio, veniva indirizzato sulle pale della ruota mettendola in rotazione. La riserva d’acqua nella saetta garantiva una portata costante in uscita, la cui velocità di erogazione poteva essere controllata attraverso opportuni regolatori in lamiera posti sugli stessi ugelli che ne determinavano anche la corretta orientazione. La ruota idraulica, molto spesso doppia, era collegata tramite un albero motore in ferro o legno alla macina posta al piano superiore dell’edificio. La macina era costituita da due mole sovrapposte (la sottana fissa e la soprana rotante, collegata all’albero). Le mole erano scolpite nell’arenaria o nella pietra lavica, importata dalla Sicilia; potevano essere monolitiche, come le più antiche oppure composte da singoli spicchi tenuti insieme da cerchi di ferro. La roccia che le costituiva veniva estratta dalla zona del vallone Merlo a Calanna, ma anche da più lontano come da Pavigliana o dalle grotte di Tremusa (Scilla). Era trasportata dai bovari e lavorata dagli scalpellini, gli stessi mugnai, che ne provvedevano alla periodica manutenzione. Battere mola era l’operazione che consisteva nello scolpire e rinnovare le incisioni ed i solchi usurati dallo sfregamento delle mole; a causa di questo processo, il peso della prima farina, ottenuta dopo una battitura, risultava alterato dalla presenza di polvere di pietra.
La molitura avveniva a partire da un imbuto ligneo quadrangolare (tramoggia) posto al di sopra della macina, riempito con le granaglie da macinare. La vibrazione, generata dal moto rotatorio della macina, favoriva la precipitazione delle stesse attraverso un canale dotato di valvola connesso con il foro centrale di alimentazione della mola, dosandone anche la quantità. Un particolare sistema di picchettatura della pietra garantiva la distribuzione uniforme delle sementi durante la macinazione e l’espulsione del macinato all’esterno, che veniva raccolto e separato tramite setacci. La velocità di rotazione della macina veniva regolata per evitare che un eccesso di calore prodotto per sfregamento scaldasse la farina alterandone il sapore e le proprietà. La macina era dotata, inoltre, di un meccanismo che consentiva di regolare lo spessore tra le due mole, in base al calibro delle sementi e per ottenere un macinato più o meno fine.
Infine, l’acqua, attraverso il canale di uscita, tornava al fiume o veniva nuovamente incanalata e sfruttata per l’irrigazione delle colture agricole. Spesso in questi casi, sorgevano gravi controversie tra i proprietari dei mulini posti a valle, che vedevano ridursi ulteriormente la portata della fiumara ed i coltivatori dei terreni a monte di essi, anch’essi bisognosi di acqua in particolare nei periodi di siccità.

UN PO’ DI STORIA
Il toponimo della contrada Limini deriva probabilmente dal latino limes, letteralmente strada delimitante il confine tra due campi o anche da limen, genericamente limite, linea di demarcazione, confine, frontiera. Per quanto riguarda Podargoni, potrebbe derivare dai termini grecanici podos ed ergon, dunque piede veloce; secondo altre interpretazioni significherebbe ai piedi del monte, in quanto centro abitato collocato alle pendici dei monti Marrappà e Basilicò.
In passato, l’acqua del Gallico è stata sfruttata per mettere in funzione vari opifici di proprietà delle famiglie più influenti della zona, non soltanto mulini, ma anche seghe idrauliche per la lavorazione del legname. Il primo mulino della contrada Limini fu edificato dalla famiglia Criserà attorno al 1808, ricordata per il matrimonio di una nipote con l’eroe di Santo Stefano, Domenico Romeo, ucciso alla fine della rivoluzione del settembre 1847. Attorno al 1815 si attesta la presenza di due mulini, uno precedente ed uno nuovo. Per far fronte al problema delle esondazioni, nel 1858-63 ne venne costruito un terzo. Le famiglie dei mugnai (mulinàri) erano spesso imparentate e talvolta affittavano i mulini ad altri nuclei familiari che li amministravano per loro.
Il mulino Limini fu costruito attorno al 1861-63, in seguito alla distruzione di un manufatto di epoca precedente e risulta oggi in buono stato di conservazione. Apparteneva alla famiglia Criserà, ultimi proprietari, e rimase in attività fino al secondo dopoguerra. Questo mulino, sito nel territorio di Podargoni, serviva quasi esclusivamente gli abitanti di Santo Stefano e fu, infatti, tale comune ad esigere l’odiata tassa sul macinato, introdotta nel Regno d’Italia nel 1868-69.

Il mulino del Principe, coevo del Limini, sorge lungo l’antico sentiero della petrazza che collegava il territorio di Santo Stefano a Podargoni. Viene erroneamente attribuito ai principi Ruffo di Scilla, in quanto sorge all’interno di quella che un tempo era la baronia di Calanna (sulla destra idrografica del Gallico), stato feudale fondato in epoca normanna e governato dai Ruffo, che possedevano, nella stessa zona, un altro mulino di epoca precedente, oggi scomparso.
Un terzo mulino era appartenuto alla famiglia Cimino di Calanna che, con l’intento di contrastare il potere delle altre famiglie di mugnai, costruì la propria mastra in modo da portare l’acqua al suo mulino sottraendola ai Criserà-Romeo. Le lotte che ne seguirono portarono all’abbattimento di questo più recente mulino e all’incendio del mulino Limini per ripicca.
Il mulino Zoccali, all’epoca polo centrale della molitura del grano per la comunità di Podargoni, oggi allo stato di rudere, fu danneggiato dal terremoto del 1908 e progressivamente abbandonato a causa dello spopolamento del centro abitato che caratterizzò il ‘900.
Molti altri mulini sono disseminati lungo la vallata del Gallico come il mulino Palamara a Cerasi o il mulino Calabrò a Sant’Alessio in Aspromonte. Quest’ultimo fu fatto costruire nella prima metà del XIX secolo ed apparteneva all’omonima famiglia, originaria di Calanna. Anche questo mulino fu reso inservibile dai terremoti del 1894 e 1908, ma fortunatamente, nel 1999 è stato oggetto di interventi di recupero.

Fonti: storico Antonino Sapone e architetto Domenico Malaspina in
https://www.youtube.com/watch?v=UVIJg3TvNjs&ab_channel=pasqualelacava
Tutto scorre di Domenico Malaspina e Antonino Sapone, Laruffa Ed. 2019
Le due immagini della tramoggia e della macina sono tratte dalla pagina facebook “mulini ad acqua di Calabria”.

L’idea di porre una statua sul Montalto risale al 1899. Fervevano infatti i preparativi per l’Anno Santo e tra le varie iniziative si pensò di salutare il XX secolo erigendo venti monumenti al Redentore su altrettante cime italiane. Il Comitato deputato all’individuazione dei siti prescelse anche l’Aspromonte e così il 23 settembre 1901 (occorsero ben due anni per la raccolta della somma necessaria) il Cardinale Gennaro Portanova, insieme ai Vescovi della Calabria, celebrò la Santa Messa alla presenza di oltre duemila fedeli.

Ma seguiamo una cronaca dell’epoca.
Era il 24 giugno 1894, Papa Leone XIII promulgava l’enciclica “Preclara” nella quale si leggeva:
“La fine del secolo passato lasciò l’Europa stanca per le rovine e trepidante per i rivolgimenti. All’opposto il secolo che volge al tramonto, perché non dovrà trasmettere in retaggio al genere umano auspici di concordia, con la speranza degli inestimabili beni che sono contenuti nell’unità della fede?”. Questo profondo desiderio del pontefice, fu accolto  positivamente ed il conte Giovanni Acquadermi si fece promotore di un  grande progetto, quello cioè di collocare – come storicamente riporta R. Cotroneo, in “Fede e Civiltà” del 12 Agosto del 1899 – “Sopra diciannove monti d’Italia, dalle Alpi alle Madonie altrettanti ricordi dell’omaggio, quanti sono finora i secoli della Redenzione Cristiana; in modo che venga a formarsi in tutta Italia una simbolica corona sacra al Redentore, attestante ai posteri la dedicazione a Gesù Cristo del secolo XX”.  Il Papa stesso volle che su ogni monumento fosse inciso il motto: “Jesu Cristo Deo restitutae per ipsum salutis – Leo P.P. XIII – anno MCM” (A Gesù Cristo Dio, tramite Lui c’è stata restituita la salvezza) ed a conclusione dell’iniziativa volle che fossero realizzati venti mattoni utilizzando la pietra dei luoghi prescelti, da includersi nel muro della Porta Santa della Basilica Vaticana nell’Anno Santo 1900.
Il comitato Calabro scelse la cima di Montalto per realizzare questo monumento al Redentore, perché come scrive sempre il Cotroneo ” … ma è l’Aspromonte, che quasi immane gigante estolle il suo capo in Montalto, e le sue braccia distende ai due mari, l’Jonio e il Tirreno, ed i piedi, lieve lieve, lambe nel Siculo stretto, ha più diritto di portar sul suo selvoso dorso la statua, o ricordo che sia, del Redentore. Qui città scomparse, qui per lungo e per largo in ogni epoca, fino a quest’ultimi anni, orde e schiere di combattenti e guerre sterminatrici, qui sconvolgimenti tellurici continui… È in fondo a Montalto, la cima più culminante dell’Aspromonte, un tempio Sacro alla Vergine, dal titolo della Montagna o di Polsi, celebratissimo, miracolosamente surto ai tempi di Ruggiero Normanno, ove affluiscono a migliaia carovane di devoti di Calabria e di Sicilia…, parteciparono alla sua realizzazione 19 Diocesi, ed il popolo Calabrese, nonostante le grandi difficoltà economiche, vi partecipò con entusiasmo; ricchi e poveri, chi più chi meno contribuirono. E, finalmente il 23 settembre 1901, la statua in bronzo opera dello scultore Francesco Ierace, eseguita a Roma dalla ditta Rosa e Zanosio, fu trasportata a pezzi a dorso di mulo, tra mille difficoltà da Delianova a Montalto, e, su un terreno donato dal Barone Stranges di San Luca, fu inaugurata dal Card. Portanova, dopo un pellegrinaggio durato 4 giorni, con sosta a Cardeto e Polsi. Vi parteciparono quasi tutti i Vescovi di Calabria, o le loro delegazioni, autorità, nobili e una gran quantità di popolo accorse lassù, per essere presente a quell’avvenimento.”

Si narra che il basamento originale alto 10 metri crollò nei 2 anni successivi all’inaugurazione, ma fu subito ricostruito anche se più basso, simile a quello odierno, e che nel 1908 subì a causa del terremoto una rotazione ma resistette e non crollò e la Statua in quel caso non subì alcun danno.
Negli anni successivi la Statua fu quasi dimenticata tranne qualche pellegrino che, nel cammino per il Santuario di Polsi, passava a fare un saluto alla Statua.
Si narra anche della presenza di un eremita che, per molti anni, scelse come sua dimora proprio la cima di Montalto e li si stabilì a far compagnia al Redentore.
Una scalinata composta da 33 gradoni in pietra di Lazzaro (33 come gli anni di Cristo) saliva al Redentore ma nel tempo crolli, erosione, usura l’hanno quasi cancellata.

Negli anni successivi sia il basamento che la Statua subirono danni causati dalle intemperie, dai fulmini, dai terremoti e da sporadici atti vandalici sino a quando negli anni ‘60 del secolo scorso la Curia arcivescovile di Reggio non decise di riportare la Statua a Reggio per tentare un restauro del manufatto bronzeo, ormai indebolito dal tempo, e della sistemazione del basamento con tecniche più moderne e più resistenti.
Dopo anni di duro lavoro, finalmente nell’agosto 1975 la statua, grazie all’impegno dell’allora arcivescovo Monsignor Giovanni Ferro, fu ricollocata al suo posto in cima all’Aspromonte. Il nuovo manufatto bronzeo, opera del prof. Michele Di Raco, fu prima portato a Gambarie di Santo Stefano d’Aspromonte e dopo solenne benedizione, fu trasportato in cima da un elicottero statunitense decollato dalla base aerea di Sigonella in Sicilia. Dopo pochi anni, però la croce era mancante.
Negli anni successivi l’Associazione “Amici di Montalto” si prese cura della Statua del Redentore alla quale restituirono nel 2000 la Croce. Nel 2003, grazie alla Curia di Reggio, reinstallarono l’epigrafe, col tempo deteriorata, in materiale bronzeo più resistente alle intemperie.

Nel frattempo, il basamento, rivestito in pietra verde di Delianuova per la parte bassa e in pietra di Lazzaro per la parte alta, si era gravemente deteriorato col rischio che cedesse. Nel 2023 la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio ha incaricato l’impresa Priolo srl di Gambarie di intervenire. Il cuore del basamento è stato rifatto con materiali e tecniche attuali e reso più sicuro l’ancoraggio della Statua che potrà superare tranquillamente molti altri inverni.

Si ringraziano, per alcune foto particolarmente belle, Giancarlo Parisi e Massimiliano Pedi.

Sito Amici di Montalto

I lavori di manutenzione del 2023

Il libro su Montalto

L’eremita di Montalto

A via da Prena o della Figurella, è quella sulla quale, come un immenso imbuto, confluiscono da secoli i pellegrini provenienti dalla Piana e in generale dal versante tirrenico dell’Aspromonte e diretti al santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte.
È quindi naturale sia punteggiato di segni che parlano dell’antico e intenso rapporto tra la gente e il luogo sacro.
A cominciare dal Serro della Croce dove i pellegrini giungono in vista del Santuario, fra le grida e gli spari euforici, si scaricano di alcune pietre che recavano sulle spalle se pesanti o in mano se leggere e le ammonticchiano in un punto nel quale, con gli anni, il monticello diviene sempre più grande. Verrebbe da pensare che il deposito di simili pietre … sia diventato imponente, ma non è così. Infatti, ad ogni necessità del santuario, i mulattieri le hanno prelevate costantemente per adibirle alle opere murarie che periodicamente si effettuano nel medesimo Santuario. (1)

Dal Serro della Croce il percorso discende in infiniti tornanti. La pista, nel tentativo di consentire il transito agli automezzi, ha quasi cancellato l’antico sentiero e accresciuto la franosità del versante. Per tal motivo la fontana della Prena, che ha dato il nome al percorso, è ormai relegata in un diverticolo posto in disparte che solo chi conosce va a visitare.

C’è da percorrere l’ultimo tratto di strada, il più ripido. Praticamente dovevo scendere da quota 1400 a quota 750 per un viottolo scavato nel dirupo e che le carte segnano con una serpentina. Ogni carovana seguiva una propria pista, a prescindere da quella esistente, saltando da un masso all’altro. Le donne portavano sulla testa in ampi canestri a mo’ di culle i bambini, i ciechi penzolavano dagli asini, così dicasi dei paralitici, degli storpi, dei malati. Erano tutti sorretti dalla fede – quella che fa muovere le montagne -, ed erano sicuri di ottenere a Polsi quello che desideravano, anche le cose più assurde. Alla sorgente detta della “Pregna”, c’era gente che si dissetava. (2)

La leggenda narra di una giovane donna incinta che, spinta dalla fede, intraprese il lungo pellegrinaggio verso il Santuario della Madonna di Polsi. Durante il cammino, il caldo e la fatica la indebolirono, e presto si ritrovò affranta e assetata, temendo di non riuscire a raggiungere la meta. In preda alla disperazione e alla stanchezza, si rivolse alla Madonna di Polsi, implorando aiuto e chiedendo un po’ d’acqua per dissetarsi e trovare la forza di proseguire.
La Madonna, mossa a compassione, esaudì la sua preghiera. Miracolosamente, apparve una sorgente d’acqua cristallina proprio accanto alla donna. Riconoscente e commossa, la pellegrina bevve e, dissetandosi, riprese le forze.

Da quel giorno, il luogo e la via presero il nome di via della Prena, in ricordo della grazia ricevuta dalla Madonna e della fede della giovane donna, che fu ricompensata con la forza necessaria per concludere il suo pellegrinaggio.
E fino a quando la fontana era sul sentiero che percorrevano i pellegrini, essi si fermano e bevono devotamente all’acqua che chiamano “disïata”. Bevendo i pellegrini dilavano le ultime scorie del mondo, di peccato che avevano portato con sé, di cui si sono in gran parte liberati gettando le pietre penitenziali sul solito monticello. La purificazione sarà completata nel Santuario, ai piedi della Vergine, dando l’offerta votiva, confessandosi e comunicandosi. (1)

E infine, a metà della discesa la Pietra della Sedia. Essa è un gran sasso, chiamato la sede della Vergine; attaccata al detto sasso vi è una nicchietta di fabbrica, con dentro l’immagine di Maria Santissima col suo Bambino, la Croce e Toro scolpite in pietra, e sopra detta nicchietta una croce. Il racconto del trasporto della statua lapidea della Madonna di Polsi ci informa che la Vergine, già ritta in piedi nel suo simulacro, allorchè giunse a tale masso, si sedette – quasi alla stessa guisa di una delle tante pellegrine stanche del fatidico viaggio – acquistando quella positura che tuttora mantiene. (1)
Dell’evento conserva memoria anche uno dei canti devozionali:

Quandu arrivaru a mmenza a la ‘nchianata
la bbella sedia sua era di petra;
e cu passa di là ca la saluta,
Maria di la Muntagna è nominata.

Quando arrivarono a metà della salita
la bella sedia sua era di pietra;
e chi passa di là che la saluta
Maria della Montagna è nominata.

In parte insoluta è l’iscrizione su due righe presente alla Pietra della Sedia:
nella riga superiore P.C.Pax Christi ?
in quella inferiore M. P. A. D. 18..9 = Monasterium Popsi Anno Domini 18…9

Giungendo a tempi più recenti Nel 1970, il Superiore Pelle, per evitare che andasse irrimediabilmente perduto, raccolse il bassorilievo che ancora si conservava sulla Sedia, … e lo incluse nella ricostruzione della fontana della Prena. (1)
Pietre, acque, sentieri che parlano a chi sa ascoltare l’altro Aspromonte.

  • “Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte” Salvatore Gemelli 1992
  • “Il pane della Sibilla” Domenico Zappone 2011

Trovate il tracciato della via della prena nella mappa dei sentieri per Polsi
Altro materiale (foto, testi, documenti) su Polsi nel sito www.laltroaspromonte.it

Ringrazio per foto e notizie Enzo Galluccio, Maria Pia Mazzitelli, Domenico Minuto, Pino Perrone e Sebastiano Romeo della Fondazione Corrado Alvaro

Un gustoso racconto dai toni eroici, tipico dell’epoca. Tratto da Teofilo Maione, A.S.C.I. Scoutismo cattolico a Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni.
Ecco una mia sintesi con tappe e tempi ma vi invito a leggere l’intera cronaca che riporto nelle immagini delle pagine del libro.
Partiti in 22 da Reggio Calabria alle ore 5 del 28 settembre 1915 sotto la direzione dell’ing. Andreoni giungono in treno a Bagnara. Al loro arrivo trovano il prof. Valbusa andatovi in precedenza per i preparativi, ed insieme ad esso ad attenderli il Consigliere comunale sig. De Leonardis e molti studenti dell’Istituto Tecnico e Liceo colà in vacanza. Vengono quindi ricevuti al Palazzo Comunale dal gentilissimo dott. Pignataro che offre prodigalmente rinfreschi e dolci. Visitata la bella sede comunale e scambiati auguri e ringraziamenti partono alle ore 8,30 per la montagna.
Transitando da Covala, Passo della Signora, Passo della Tavola alle ore 15 arrivano alla segheria De Leo in Aspromonte dove “li aveva preceduti il Capo squadra Ferrari che già aveva provvisto a mettere a fuoco la carne che fumava in modo consolante in una grande marmitta”.
Prima della cena però salgono al monumento di Garibaldi. Pernottamento alla meglio nella segheria.
“Al mattino del 29 prima di giorno erano tutti lestamente in piedi”. Si dividono in due gruppi. I più giovani alle 5.30, “dopo sonori urrà e squilli di tromba senza fermate alla 8.30” rientrano a Bagnara.
In 5 prendono la via della montagna e attraverso “la cresta di Monte Petrona e seguendo sempre il displuvio per il Monte Cuddeo” (ndr Caddeo) giungono alla vetta del Montalto per le 13.
“Ivi fecero una lunga e beata sosta godendo della magnificenza del sole e dell’immenso panorama che di lassù si ha sul Tirreno e sullo Jonio”. Dai Piani dei Reggitani sono a Polsi alle ore 19. Nonostante la grande affluenza di pellegrini il Superiore don Giosofatto Mittiga trova loro alloggio.
Al mattino del 30 partono “alla volta di Bovalino discendendo in tutta la sua lunghezza la Vallata della Fiumara Bonamico”. Il mattino del 31, col treno Diretto delle 6.25 erano tutti di ritorno a Reggio.

Il racconto pubblicato da Maione è apparso sulla rivista del CNGEI del 1915 e sul Corriere di Calabria diretto da Orazio Cipriani del 9 settembre 1915. Si ringrazia per i documenti forniti il giornalista dr. Filippo Praticò.
Altre storie sullo scoutismo a Reggio Calabria nel fascismo

Laureato all’Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze e in Scienze Politiche (indirizzo Internazionale) all’Università di Firenze, risiede attualmente a Catanzaro e fonda nel 1995 I Viaggi di Zefiro, Tour Operator specializzato in viaggi culturali ed esperienziali in Calabria, Italia e all’estero.
Appassionato di viaggi, di fotografia da reportage, di escursionismo, è un profondo conoscitore della Calabria e dei suoi angoli più remoti, della sua gente e delle sue tradizioni, sempre alla ricerca del genius loci dei territori. È un convinto ambasciatore della sua terra e ama raccontarla per immagini, attraversandola in lungo e in largo, a piedi, in auto o con i tour che organizza, sempre alla scoperta di prospettive inconsuete e nuove storie da ascoltare al di là dei luoghi comuni.
La sua idea di Calabria: una terra ’non ordinaria’, del non-finito e dell’infinito, del possibile e dell’impossibile, di una bellezza selvatica che lascia senza fiato.
Si avvicina ai social 10 anni fa, per curiosità e divertimento, e scopre le grandi potenzialità di comunicazione e scambio culturale che essi offrono oltre che l’opportunità di intercettare tendenze, personaggi, eventi e storie. I canali che predilige sono Facebook e Instagram (con lo pseudonimo @impattozero), dove pubblica frequentemente i suoi racconti fotografici e condivide suggestioni e la grande passione per la sua terra di origine.

Erano gli anni ’90 del secolo scorso e avevo creato la cooperativa Nuove Frontiere, prima struttura nel sud Italia che offriva servizi nel turismo naturalistico trasformando così la mia passione in attività professionale. Questo in una montagna, l’Aspromonte, che da problema stava divenendo risorsa.
Erano ormai diverse le sezioni CAI del nord Italia e anche qualche gruppo di tedeschi che camminavano in Aspromonte.
I pernottamenti, tuttavia erano in tenda, eccetto il primo e l’ultimo giorno, o al meglio in caselli forestali non attrezzati per l’ospitalità. Insomma, il comfort era minimo.
Il salto di qualità si ebbe ispirandoci a Edward Lear, un viaggiatore inglese che peregrinò per l’Aspromonte nel 1847 lasciando splendidi acquarelli e un gustoso diario dove scrive:
“Il sistema di viaggio che io e il mio compagno adottammo … era il più semplice ed anche il meno costoso: abbiamo; infatti, compiuto l’intero viaggio a piedi (…) in Calabria, un asino per caricarvi quel po’ di bagaglio che avevamo portato con noi, ed una guida (…) Poiché in quelle province non ci sono alberghi (…) il viaggiatore deve sempre contare sull’ospitalità di qualche famiglia, in ogni città che visita”.
La sua formula fu il nostro obiettivo. La scintilla che avviò il coinvolgimento degli abitanti dei paesi scoccò per l’incontro casuale tra un mio gruppo di escursionisti e i giovani della neonata cooperativa San Leo di Bova. Questi raccontano: “Il primo gruppo di persone che abbiamo avuto veniva da Roghudi guidati da Alfonso Picone Chiodo di Nuove Frontiere e ci chiese da mangiare perché c’era stato un malinteso con il pastore con il quale avevano l’accordo” “Avevamo un negozietto per vendere frutta e verdura. Alfonso ci chiese: se non c’è un ristorante, almeno potete farci un’insalata? Potete fare altro? E da lì poi è iniziata l’interazione”.
L’idea andava però strutturata. Nel 1993 ci venne in aiuto il WWF Italia che incaricò la società Eco&Eco di elaborare il progetto “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”. Prendendo spunto dalla formula adottata da Lear bisognava creare un’offerta per il turismo escursionistico, caratterizzata dall’uso delle abitazioni nei paesi come strutture di accoglienza per il vitto e l’alloggio dei visitatori. Il progetto per realizzarsi necessitava non tanto di investimenti, quanto di capacità, motivazioni, disponibilità all’iniziativa, spirito di collaborazione. Un progetto che fu di stimolo per la società civile della zona e strumento di promozione delle energie sociali presenti in quei paesi dell’Aspromonte. In particolare, dimostrò come una iniziativa di sviluppo compatibile possa fondarsi sulle risorse ambientali e umane presenti nell’area, opportunamente organizzate e coordinate.
In questo processo ci fu di aiuto il programma europeo di animazione CADISPA, (Conservation And Development In Sparsely Populated Areas) grazie al quale coinvolgemmo la gente dei paesi e per prime le donne. Recuperarono e riadattarono parte dell’inutilizzato patrimonio abitativo ma soprattutto aprirono le loro case al turista che divenne ospite offrendogli un’esperienza coinvolgente a contatto con la cultura e le tradizioni delle popolazioni aspromontane. E fu anche importante per quanti vennero coinvolti che acquistarono dignità e consapevolezza del valore della propria cultura, sino allora negletta.
Col Sentiero dell’Inglese avevamo inventato l’Ospitalità Diffusa.
Il Cammino è lungo circa 110 km, suddiviso in 6 tappe giornaliere immerse nella macchia mediterranea punteggiata da suggestivi scorci panoramici sul mar Ionio e le caratteristiche fiumare. Attraversa i paesi di Pentidattilo, Bagaladi, Amendolea di Condofuri, Bova, Palizzi, Pietrapennata e Staiti con singolari impianti urbanistici e pregevoli monumenti, ricchi di storia e tradizioni. Ma nonostante tali interessi la principale caratteristica del Sentiero dell’Inglese non è l’ambiente ma la gente. In un mercato turistico dove le offerte proposte sono spesso avulse dal territorio che si percorre, il Sentiero dell’Inglese coinvolge direttamente le popolazioni locali.

Ma non era finita lì. Nel 2019 il Cammino ha conosciuto una nuova rinascita grazie all’impegno congiunto di Naturaliter, che ha gestito e potenziato l’eredità di Nuove Frontiere, e Compagnia dei Cammini, che hanno lavorato per ridisegnare il percorso, aggiornare la segnaletica e offrire nuovi servizi ai viaggiatori. Da allora, il Sentiero dell’Inglese è divenuto uno dei cammini di maggior successo del meridione d’Italia ospitando migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo con decine di guide che accompagnano ed anche escursionisti che si muovono autonomamente. Ha quindi stimolato il territorio nella nascita di piccole realtà imprenditoriali, rifugi, agriturismi, ricettività, ristorantini. Un considerevole impatto economico che ha consentito a diversi giovani di rimanere a lavorare nella propria terra e dare una speranza al futuro di alcuni paesi dell’interno.
Sentiero dell’Inglese: un cammino lungo trent’anni.

Approfondimenti.
Trovate descrizione delle tappe, alloggi, mappa escursionistica e altre info nel
sito ufficiale del Sentiero dell’Inglese

Una guida cartacea è stata realizzata da Aspromonte Lab
https://aspromontelab.bigcartel.com/product/asproguida-il-sentiero-dell-inglese

Un articolo del 1995 sulla Rivista della Montagna
Progetto società Eco&Eco “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”

Edward Lear: biografia, viaggio in Aspromonte e disegni in https://www.laltroaspromonte.it/storie/edward-lear-diario-di-un-viaggio-a-piedi/

La Calabria del XIX secolo ospitò numerosi viaggiatori stranieri attratti dal fascino per il suo passato magnogreco e dal mito romantico del brigantaggio; nonostante ciò, molte zone del meridione calabrese rimasero a lungo inesplorate ed ignote a livello europeo. Una delle ragioni principali che mosse intellettuali e artisti del tempo ad intraprendere il viaggio verso l’estrema punta dell’Italia peninsulare – all’epoca denominata “Calabria Ulteriore Prima” – fu, dunque, la volontà di conoscerne luoghi, tradizioni, costumi ed opere d’arte per loro inediti. Tra i più celebri si deve citare l’inglese Edward Lear (Highgate, Londra 1812 – Sanremo 1888), illustratore, artista, musicista e scrittore vittoriano, autore di raccolte di numerosi diari di viaggio, ricordato per il suo talento naturale per il disegno. La sua arte fu apprezzata dalla famiglia reale inglese tanto che in alcune occasioni insegnò disegno alla regina Vittoria.
Compì viaggi in diverse regioni per l’epoca considerate esotiche come Grecia, Albania, Isole del Mar Jonio e Corsica pubblicando diari arricchiti da splendide illustrazioni.
Lear è ricordato anche per la sua vasta produzione di limerick (versetti umoristici “nonsense”), raccolti nell’opera “A Book of Nonsense” (1846) e per i suoi scritti di botanica ed alfabeti “nonsense” che nel 1870 riunì nel libro “Nonsense Songs, Stories, Botany and Alphabets”. Come pittore naturalista pubblicò una delle sue più belle opere zoologiche illustrate, dedicata ai pappagalli: “Illustrations of the family of Psittacidae or Parrots”.
Verso la fine degli anni ‘30 del 1800 si trasferì a Roma e, da lì, cominciò a viaggiare per l’Italia visitando, negli anni successivi, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise. Nel 1847 dalla Sicilia raggiunse Reggio Calabria e ne visitò la provincia: una spedizione durata dal 25 luglio al 5 settembre, che lo condusse, insieme all’amico John Proby, sotto la guida locale di Ciccio e del suo asino, da una costa calabra all’altra attraverso i sentieri dell’Aspromonte. Un’esperienza che lo colpì molto per la scoperta di luoghi carichi di storia, per i villaggi siti in luoghi quasi inaccessibili, per i panorami così diversi da quelli anglosassoni. Le sue celebri memorie, “Journals of a landscape painter in Southern Calabria” pubblicate nel 1852 a Londra e tradotte in italiano nel “Diario di un viaggio a piedi”, rappresentano forse il primo resoconto illustrato di un’esplorazione della provincia di Reggio Calabria, un ritratto a tutto tondo di questa terra e dell’indole dei suoi abitanti.
Malgrado la fama europea di regione arretrata, aspra e pericolosa, Lear rimase colpito dalla cordialità ed ospitalità dei calabresi, ereditata dalle civiltà classiche del passato e, pertanto, considerata sacra. Il viaggio, ad anello, iniziò e si concluse a Reggio Calabria attraversando borghi grecofoni, colline, grandi fiumare, maestosi uliveti secolari ed agrumeti.
Nella sua opera Lear restituisce con efficace realismo paesaggi di grande suggestione, ritratti con ricchezza di dettagli in incisioni basate su schizzi o acquerelli realizzati durante il viaggio e racconta scene di vita di una Calabria immersa nel contesto storico del Risorgimento. Le insurrezioni che presto sarebbero sfociate nei moti rivoluzionari che interessarono il Regno di Napoli nel 1847 costrinsero Lear ad interrompere il viaggio, impedendogli di visitare le restanti province calabre. Ci ha lasciato però il ritratto di un altro Aspromonte.
Alcuni editori hanno stampato il suo “Diario di un viaggio a piedi” e diverse opere sono state curate dal saggista Raffaele Gaetano, massimo esperto di Lear. Dalla sua opera “Per la Calabria selvaggia” del 2022 per Laruffa Editore sono tratti molti dei disegni pubblicati nel sito.

Approfondimenti
Interessante confronto tra alcuni disegni di Lear e lo stato attuale dei luoghi
Saggio sull’opera di Lear a cura della prof. Francesca Paolino

In tempi recenti il viaggio di Lear, ribattezzato Il Sentiero dell’Inglese, è stato riscoperto e valorizzato divenendo il trekking più frequentato dell’Aspromonte.
Ma questa è un’altra storia che potete leggere in https://www.laltroaspromonte.it/storie/il-lungo-cammino-del-sentiero-dellinglese/