Gli abitanti di Roghudi, insediati nel cuore della vallata della fiumara Amendolea, avevano con questa un rapporto contrastante. Questo imponente e capriccioso corso d’acqua era via di comunicazione ma barriera nelle stagioni piovose, prezioso per l’acqua che irrigava alcune colture ma strumento di morte quando le alluvioni seminarono lutti.
Il ponte sulla fiumara Amendolea, tra Roghudi e Ghorio di Roccaforte (che quindi chiamo “di Roghudi”), dovrebbe aver avuto la seguente evoluzione.
Nelle carte più antiche che ho trovato (1870 e 1903), nelle quali presumibilmente dovrebbe essere stato riportato un manufatto del genere, non vi è nulla.
D’altronde il 9 agosto del 1893 il sindaco Romeo chiedeva al prefetto Virginio Rambelli la costruzione della strada rotabile con la quale “avremmo i due ponti sui due grossi torrenti che quasi annualmente fanno delle vittime della gente che obbligatoriamente deve attraversarli”. (1)
La prima immagine che ho trovato in cui si vede qualcosa che potrebbe essere una passerella pedonale (come mi riferiscono anche alcune delle fonti orali consultate) è una foto aerea scattata da uno Spitfire britannico impegnato come ricognitore nel 1943. Una passerella così precaria da causare anche morti.
Segue il ponte ad arco realizzato nel 1934-36 dal Genio Civile e del quale pubblico 3 foto. La larghezza della carreggiata consentiva appena il transito delle auto, la prima a Roghudi giunse nel 1960.
Interessante la foto che ritrae una briglia a monte del ponte a sua protezione ma che venne spazzata via dalla fiumara, insieme al ponte, nei primi anni ’60. Pubblico anche una foto dell’attuale tracciato, subito dopo il ponte, con evidenziato il vecchio percorso.
Venne poi realizzato, nel 1963, un ponte in ferro con piano in tavoloni. Spesso ne mancavano alcuni rendendo rischioso il passaggio.
Nela seconda metà degli anni ’70 venne costruito l’attuale ponte a campata unica, finalmente un’opera sicura. Tuttavia, qualche anno prima le alluvioni avevano costretto gli abitanti di Roghudi e della sua frazione Ghorio a lasciare le proprie case. Insomma, venne realizzato quando non vi era più nessuno a cui servisse! Inoltre, non avendo una briglia a monte l’apporto di materiale litico è così cospicuo che la luce libera finisce con l’essere chiusa richiedendo interventi di rimozione.

Ben più a valle di Roghudi esiste il ponte che possiamo chiamare di Amendolea perché porta alla frazione omonima. Nella foto aerea del 1943 non vi è nessun manufatto come confermano i miei informatori. Si passava più a monte, a Malopertuso (il nome è un programma) e a San Carlo, più a valle. Si guadava il fiume a piedi con passerelle improvvisate. D’inverno quando la fiumara, con voce greca, faceva “pelago”, cioè, era in piena, si attraversava con dei carri. O a piedi immergendosi nell’acqua. In tal caso gli uomini più valenti si offrivano come Caronte, trasportando sulle spalle, per meglio dire a “pecurumbè”, da una riva all’altra coloro che ne avevano bisogno. O tenendosi per mano e formando una catena umana per resistere alla corrente del fiume.

Scarne notizie sugli attraversamenti del torrente Furrìa, affluente dell’Amendolea, tra Ghorio di Roghudi e Bova. Un vecchio ponte è ancora in piedi, a lato dell’attuale. Il luogo è oggi conosciuto dai torrentisti per le belle gole che forma, anche se non integralmente percorribili per frane.

In ultimo segnalo un ponte lungo una strada chiusa da tempo, quella che dai Campi di Bova, alla Croce di San Leo, scendeva a Roghudi, franata proprio in quest’ultimo tratto. Nel tratto iniziale serve diverse contrade ed è ancora in qualche modo percorribile. Si incontra un ponte detto delle vacche dato che sono i principali e forse unici fruitori stabili.
Ringrazio Domenico Minuto, Salvino Nucera, Ugo Sergi, Bruno Stelitano.

(1) Vincenzo Cataldo, Per ordine del Prefetto. Problemi, iniziative e governo del territorio nella provincia di Reggio Calabria durante la prima fase post-unitaria, Associazione Promocultura, 2022

Di seguito i link per poter osservare con Google Maps i vari ponti.
ponte Roghudi
ponte Amendolea
ponte Furria
ponte vacche
passerelle varie

Conoscerete il ghiro o quantomeno saprete che è un piccolo roditore famoso per il suo sonno prolungato e la sua irresistibile dolcezza. Meno simpatico quando infesta i solai delle case rurali provocando danni alle travi in legno.
Il ghiro (Glis glis) è un animale notturno diffuso in tutta Europa, dalla pianura ala montagna. Arboricolo, predilige frutteti e boschi di querce e latifoglie in genere. Lungo circa 30 cm di cui quasi metà è la coda e pesa meno di 100 gr. Pelliccia grigio cenere e bianca sul ventre.
Passa gran parte della sua vita a dormire. Durante l’inverno entra in un lungo letargo, per lo più in cavità degli alberi, che può durare fino a sette mesi! Questo letargo è il modo in cui il ghiro conserva energia e sopravvive ai rigori dell’inverno, quando il cibo è scarso.
Ma il ghiro non è solo un grande dormiglione. È anche un abile scalatore e un esperto nel trovare rifugi sicuri nei tronchi degli alberi o nelle cavità delle rocce. La sua dieta varia a seconda della stagione: si nutre di frutta, ghiande, insetti e piccoli vertebrati.
Se in pericolo cerca di distrarre il predatore staccandosi la coda, come le lucertole. Il meccanismo di difesa si definisce autotomia. Alcuni animali, se soggetti a predazione, si amputano parti del corpo per disorientare il predatore che spesso viene distratto dal parziale “bottino” consentendo all’inseguito di fuggire. A differenza delle lucertole però al ghiro la coda non ricresce.
Curiosità: il ghiro è noto per il suo “chatter”, un suono che emette per comunicare con i suoi simili. Ha infatti una vita sociale molto sviluppata e vive spesso in piccoli gruppi familiari. Il ghiro, in grecanico detto “oddìo”, può arrivare a vivere anche oltre dieci anni e pare che tale longevità sia dovuta all’effetto benefico del letargo.
Il ghiro era considerato una prelibatezza per le sue carni dagli antichi romani. Veniva cacciato e allevato in speciali contenitori chiamati “gliraria”.
Fino al 1977, anno di promulgazione della legge 968, rientrava tra le specie cacciabili. Attualmente è protetto dalla L.157/92, la c.d. legge sulla caccia, ed in Calabria, in relazione alla normativa nazionale, dalla L.R. 9/96 che ne vieta la caccia, la cattura e la detenzione.
Nonostante ciò, in Aspromonte è ancora ricercato. Un tempo si cacciava nelle notti di luce piena, ma con l’avvento della tecnologia si passò alle torce elettriche montate su fucili di piccolo calibro, con le quali una volta abbagliato è un facile bersaglio. Utilizzano anche le trappole poste sugli alberi attraendolo con castagne, noci o ghiande. In montagna se ne trova un’ampia varietà: dalla “praca”, la più antica fatta con due pietre piatte e un ingegno, a quelle più moderne, sorprendenti per i tanti materiali usati. Negli ultimi decenni gli incendi sono responsabili della riduzione del suo habitat.

n.b.: alcune immagini sono tratte dal web

Video ghiro

A cura della redazione de “L’Altro Aspromonte”

Nel 1922, poco più di cento anni fa, è stato ricordato da alcune recenti ricerche (che sotto indichiamo), nasceva ufficialmente tra i boschi di Mannoli, poco sopra S. Stefano d’Aspromonte, quella che è forse l’opera più significativa, viva ed attuale, di Umberto Zanotti Bianco.
L’idea di realizzare colonie montane dove portare in un ambiente salubre i bambini malarici o predisposti alla tubercolosi, da tempo nei piani di Zanotti Bianco, si era resa attuabile nel 1920, quando, tornato in Calabria nel dopoguerra, poté valersi della donazione fatta all’ANIMI di un ampio terreno da parte della famiglia Romeo di Santo Stefano. I lavori iniziarono subito e furono segnati dal dinamismo coinvolgente di Zanotti Bianco che già a dicembre del 1923 chiedeva aiuti per l’arredamento al Comando Militare locale per opere “destinate ad assistere ed educare gli orfani di guerra”.
La colonia iniziò prontamente a funzionare con due grandi padiglioni in legname per i dormitori dei ragazzi e il loro refettorio e persino un piccolo chalet venne trasportato da Reggio e rimontato sul posto.
Il tutto completato dalla bellissima chiesetta in legno che sovrasta il villaggio e che venne pensata e disegnata nei particolari da Zanotti Bianco stesso. Sul frontale d’ingresso è riportato un versetto del vangelo di Giovanni: Ut Omnes In Te Unum Sint (Affinché tutti siano in Te un’unica realtà).
Negli anni successivi Zanotti Bianco, muovendosi tra l’Italia e l’Europa, riusciva ad ottenere fondi per migliorare la struttura, tra i quali una cospicua somma dalla oggi conosciutissima “Save the Children” che era nata a Londra nel 1919 proprio per far fronte alle spaventose condizioni di vita di tanti minori dopo la Prima guerra mondiale.
Nel 1931 furono realizzate importanti opere idrauliche ai margini del territorio della colonia per imbrigliare le acque e opere di contenimento del terreno che hanno preservato nel tempo efficacemente l’area della Colonia. Il 1° giugno 1932 Zanotti Bianco vi accompagnava in visita il principe di Piemonte Umberto di Savoia con la principessa Maria José.
Gli anni successivi e la Seconda guerra mondiale registrano massicce richieste da varie parti del Mezzogiorno per soggiorni in favore di bambini bisognosi di cure accuditi dalle suore Francescane Alcantarine, sotto la gestione dello storico segretario dell’ANIMI e grande collaboratore di Zanotti Bianco, Gaetano Piacentini.
L’impegno di Zanotti Bianco non verrà meno per la Colonia anche nel dopoguerra nonostante la nomina nel 1944 a presidente della Croce Rossa e quella nel 1952 a senatore a vita da parte di Einaudi. Una lettera del 1958 attesta i ringraziamenti di Zanotti Bianco al prof. Pietro Timpano, per le notizie ricevute sulle condizioni sanitarie dei bambini della Colonia Franchetti.
Nel 1960 gli edifici aumentarono a 11 in muratura, oltre allo chalet per gli ospiti, le due scuole e un grande padiglione in legno.
La popolazione di Mannoli volle riconoscere l’impegno di Zanotti Bianco per cui, in accordo con l’amministrazione comunale di S. Stefano, gli venne intitolata la piazza centrale della frazione.
Un vero e proprio villaggio dei fanciulli in mezzo agli alberi che però terminò di operare quando, nel recente passato, le Suore andarono via. Ma una decina di anni fa il MASCI RC 4 (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani), ha preso in gestione alcune strutture (le restanti sono della Curia reggina e al momento non utilizzate) facendone una base scout.
Una delle creature di Umberto Zanotti Bianco è quindi tornata a vivere.

Per notizie e approfondimenti storici:
1) Alfredo Vadalà, Gli interventi dell’ANIMI nel Comune di Santo Stefano d’Aspromonte. La Colonia Franchetti, L’Asilo monumentale La Colonia Franchetti, L’Asilo monumentale La Biblioteca popolare, La Scuola itinerante sull’Aspromonte Iiriti Editore, 2022
2) Alfredo Focà, Umberto Zanotti Bianco in Aspromonte: Santo Stefano in Aspromonte, Mannoli, Africo, Ferruzzano, Perlupo. In memoria di Umberto Zanotti Bianco nel 60esimo dalla sua scomparsa: 1963-2023, Iiriti Ed. 2023
Zanotti Bianco, L’Aspromonte, la memoria
Zanotti Bianco e gli asili in Aspromonte

Alla Portella di Bova, a monte del paese, viene attribuito il nome “Passo della Zita” per la leggenda di una “zita” (fidanzata) che si buttò nel vuoto pur di non sposare un uomo che non amava.
Ma passando dal racconto tradizionale alla realtà è singolare che qualche decennio fa questo luogo sia stato funestato da un evento tragico. Esiste infatti una vecchia croce in ferro senza alcuna indicazione del nome di chi morì e quando. Con una caparbia ricerca ho potuto fare luce su quanto accadde diverso tempo fa.
Ecco la testimonianza del dr. Vincenzo Bagnato, all’epoca funzionario del Corpo Forestale dello Stato.
“Negli anni ’80 del secolo scorso, facendo seguito ad altri positivi e precedenti interventi biologici di lotta fitosanitaria su pinete infestate dalla processionaria, utilizzando il Bacillus thuringiensis, mediante irrorazione con elicotteri, il Corpo Forestale dello Stato, con finanziamenti della Regione Calabria, intervenne per il trattamento di quasi 4 mila ettari di pineta di Pino Laricio, ripartiti su circa 30 Comuni aspromontani.
Per la esecuzione dei lavori, erano state predisposte diverse basi operative montane, baricentriche alle zone da irrorare. Una di queste era stata localizzata in località Campi di Bova in agro di Bova.
Il 26 ottobre del 1984, ultimato l’intervento in quella zona, l’elicottero doveva trasferirsi al vivaio forestale di Cucullaro (S. Stefano in Aspromonte). Ma quella mattina il pilota dell’elicottero volle eseguire, per conto dell’Amministrazione Provinciale di Reggio Calabria, la posa in opera di rete zincata a protezione della pendice quasi a strapiombo ed instabile, delimitante la strada provinciale in località Passo della Zita. Il pilota, un valdostano, per alleggerire il velivolo, ne fece smontare le portiere e trasportò i rotoli di rete sulla stretta base di appoggio situata in sommità alla pendice dove si trovava l’operaio Sergio Cancellara di 24 anni. Quest’ultimo dava indicazioni via radio al pilota dell’elicottero. Stesa la rete e quindi terminato il lavoro l’elicottero si era abbassato a pochi metri da terra per consentire a Sergio di salire a bordo. Era un’operazione consueta che però ebbe un tragico epilogo.
Infatti, il velivolo rimase agganciato con un pattino alla rete metallica già stesa e si inclinò paurosamente. Proprio nell’attimo in cui l’operaio stava per salirvi. Questi, prevedendo il disastro, cercò di saltare per aggrapparsi alla rete ma, mancando la presa, precipitò sulla sottostante strada provinciale schiantandosi da oltre cinquanta metri.
Soccorso dagli stessi compagni di lavoro venne trasportato con l’elicottero all’aeroporto di Reggio Calabria ma il sanitario dello scalo aereo non poté far altro che constatare il decesso del giovane operaio.
Il sottoscritto, Direttore dei Lavori per quell’intervento fitosanitario, nella qualità di funzionario del Corpo Forestale dello Stato, si trovò ad affrontare una dolorosissima ed inimmaginabile esperienza! Dalla impreparazione e disorientamento dell’impresa; alle pratiche amministrative previste; dal sopralluogo con il medico legale; alla benedizione della salma presso l’obitorio del cimitero di Reggio fino all’avviso ai poveri genitori residenti a Canelli (Asti) ed al susseguente e straziante incontro con loro.
Di questo giovane tecnico, di modeste origini meridionali (Basilicata), ricordo la generosità e la disponibilità ad effettuare a regola d’arte i compiti assegnati.
A distanza di 40 anni rimane scolpito nella mia memoria quel dramma, che poteva essere evitato se l’impresa non si fosse lasciata condizionare dal tornaconto economico, sacrificando la vita di un innocente che aveva profondamente creduto nel suo riscatto verso un avvenire più dignitoso.”
Altri particolari sulla vicenda si possono leggere nell’articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud che riporto tra le immagini.

Ringrazio la responsabile Ufficio Anagrafe del Comune di Canelli Dott.ssa Vanda Cellino, il Dr. Francesco Palamara insieme al personale della Biblioteca della Regione Calabria, il vicesindaco di Bova Dr. Gianfranco Marino e Giuseppe Di Crea.

Vi racconto di un luogo poco frequentato dagli escursionisti. Un vallone il cui nome è già una malìa: Stricòpitu. Si trova in agro di Roghudi, a monte del ponte sulla fiumara Amendolea.
Il primo approccio fu nel 2015 ma non riuscimmo a raggiungere la meta. Tornai nel 2020 e poi più volte e con diversi amici tenaci nell’esplorazione. Sino a quando non trovammo la via per affacciarci su questo strepitoso balcone sul serpente d’argento: l’Amendolea.
Il primo tratto del sentiero, in località Mango, collega diversi casolari, un piccolo borgo, testimoni di una fervida vita. Una casa, che poi seppi è di Salvatore Maesano detto Notrìa, conserva ancora oggetti, strumenti di lavoro (una sega a telaio fisso per ricavare tavole dai tronchi) e financo una chitarra.
Inizialmente si cammina agevolmente seguendo una mastra, un canale scavato nella roccia per addurre l’acqua alle gebbie. Ma inoltrandosi nel vallone l’abbandono dei coltivi rende i sentieri evanescenti dovendosi districare tra alberi caduti e ringraziando i cinghiali per i varchi aperti. Anche le case vengono fagocitate dai rovi. Infine, conquistiamo, come fosse la cima di un ottomila, il pianoro di Seddìda, anche qui ruderi di case. Località ora quasi irraggiungibile ma una volta coltivata, abitata. La vista si apre, verso valle, su Roghudi e in alto su Santa Trada, Puntone Travi e su, su … sino a Maesano.
Seguiamo con gli occhi quello che doveva essere il percorso che proseguiva verso monte, collegando una sequenza di casolari e sino alle cascate Linna e Castanò. Già i nomi, perlopiù in grecanico, ci attraggono: Plassà, Portella di Calojero, Mannaròpodi, Punta Rossa, Lisu, Berritta, Jumarda, Ropi, Limbìa.
Ma il tempo concesso è terminato e l’Aspromonte ci aveva già regalato tanto.
Un ultimo pensiero va al “Canali di maru Leu” che mi riporta alla mente un’altra mastra, ancora più ardita, alla quale arrivai dalla fiumara Amendolea nel 1986.
Non era ancora arrivato il torrentismo in Aspromonte e noi poveri esploratori andavamo controcorrente, nel senso che i corsi d’acqua li risalivamo. Nel 1986 organizzai una delle prime risalite esplorative delle fiumare ma chi doveva raggiungere le sorgenti dell’Amendolea (Roberto Lombi e Massimo Baldari) si dovette arrendere di fronte ai numerosi salti sotto Santa Trada. Tornai allora insieme a loro e con Tonino Micalizzi e Tito Gatto, determinati a superare l’ostacolo. Ci arrampicammo sulla parete destra (sinistra idrografica) della cascata e raggiungemmo questa canaletta (di maru Leu?) che ritenemmo provvidenziale, fiduciosi che ci avrebbe portato facilmente alla fiumara a monte delle cascate.  Ma non fu così perché in diversi punti la mastra era franata e quindi seguirla, con zaini pesantissimi e ingombranti, fu problematico e in diversi tratti rischioso. I pastori di quella contrada mi dissero poi di uno scalpellino (maru Leu?) che per scavare il canale veniva calato in una cesta appesa a una corda lungo la parete.
Storie incredibili dell’altro Aspromonte.

Ps: sull’etimologia di Stricòpitu ho interpellato diversi esperti (che ringrazio) e, con piacere, ho riscontrato come anche nei toponimi l’Aspromonte non si disveli facilmente. L’ultima ipotesi è che potrebbe essere composto da “òstrakon” = pezzo di ceramica e “pithos” = giarra, quindi una una giarra rammendata, rattoppata. Ma per dire “pezzo di giarra” in greco si costruirebbe la parola al contrario, ossia, pitòstraco.  Insomma, il mistero rimane.
Alcuni dei toponimi citati nel racconto, come Seddìda,, non sono riportati nelle carte topografiche ma sono stati raccolti da fonti orali. Li trovate tutti nella mappa toponimi
Per approfondimenti risalita tre fiumare 1986   video Mango Strìcopitu

Premessa
Col Trekking delle tre fiumare abbiamo raccontato della prima, pioneristica esplorazione dell’Aspromonte, nell’ormai lontano 1986.
All’avventura partecipò il giornalista e fotografo naturalista Franco Barbagallo. All’epoca avviò un’attività che lo portò a girare il mondo divenendo uno dei massimi professionisti con migliaia di servizi apparsi sulle maggiori riviste del settore e decine di volumi fotografici.
Ecco il suo ricordo e le immagini, inediti, di quell’esperienza.

IL RACCONTO
di Franco Barbagallo
Fra mille trekking in tutto il mondo, il più difficile e impegnativo è stato senza dubbio quello di tre giorni nel 1986 risalendo in Aspromonte la fiumara La Verde. Ero con la guida/esperto locale Alfonso Picone Chiodo, un filiforme lungagnone che si portava zaini sulle spalle che pesavano più di lui. Un entusiasta e appassionato che è poi stato capace di orientare la sua vita e il suo lavoro per la natura e la sua scoperta, soprattutto zaino in spalla. Il servizio doveva uscire sulla rivista “regina” Airone, con la quale avevo appena pubblicato due grossi servizi: La Traversata in sci alpinismo dell’Etna e Il Golfo di Noto in kayak da mare, che mi avevano dischiuso le porte di una collaborazione costante durata 25 anni. Solo che, alla fine, la nostra è risultata un’impresa epica, improponibile a tutti. Intanto perché serviva assolutamente una guida molto esperta. Poi perché bisognava essere molto preparati e capaci. I passaggi difficili, scoperti, potenzialmente pericolosi erano tanti. Pertanto, non fu pubblicato se non brevemente su Natura Oggi o Plein Air.
Ma rimase un’esperienza unica! Avevamo zaini notevoli, io anche attrezzatura e treppiede e ne è valsa comunque la pena, eccome. Tre giorni totalmente isolati dal mondo come fossimo in Papuasia. Dopo aver incontrato una donna che lavava i panni lungo la fiumara, non abbiamo più visto anima viva. Nel 1986 di canyoning non se ne parlava nemmeno, e noi abbiamo fatto canyoning al contrario, risalendo la fiumara dalla foce fin su in alto fra balze, rocce, canyon, strettoie, massi enormi da scavalcare o aggirare inerpicandoci come capre a fianco di cascate e laghetti di montagna inattesi dove rinfrescarci. Bevevamo quell’acqua con l’amuchina per renderla sicura, il cibo era il solito di un trek e la tenda sembrava una reggia. Eravamo giovani, entusiasti, motivatissimi. Sono poi tornato in Aspromonte tante volte: il bergamotto, Pentidattilo e per fare un gran bel servizio per Airone sul “Sentiero dell’Inglese”, della cooperativa Nuove Frontiere fondata da Alfonso e da Pasquale Valle.
La sublimazione del mio lavoro in Calabria (dove ho realizzato davvero tanti servizi per molte riviste) sono stati i due speciali per Airone: Calabria “Mare” e Calabria “Montagna”. Alla fine della realizzazione dei quali (in tutto si è trattato di 420 pagine, un vero e proprio libro) credo di aver avuto modo di conoscerla quasi quanto la mia Sicilia.
È stato molto bello scansire queste diapositive Kodakchrome 64, sepolte in un angolo del mio così vasto archivio, che mi hanno riportato indietro nel tempo in una delle più belle avventure della mia vita svolte con un caro amico, competente, gentile e educatissimo.
Oggi quelle foto sono un documento unico che testimonia un ambiente, dopo quasi 40 anni, ancora integro e selvaggio.

di Joseph Moricca

Preludio.
1986. È un brutto momento per l’Aspromonte, considerato dall’opinione pubblica italiana covo di latitanti, nascondiglio di sequestrati, regno di malaffare in genere. Una montagna piuttosto inaccessibile anche per la carenza di sentieri segnati.
In un pomeriggio primaverile di quell’anno, assieme ad alcuni amici, si ragionava per stabilire nuovi itinerari escursionistici, come spesso ci capitava di fare da un paio d’anni, impegnati a trovare un modo per attirare l’attenzione dei media sulla nostra montagna, convinti delle sue reali potenzialità.
Un’idea ricorrente era quella di raggiungere a piedi il Montalto, vetta dell’Aspromonte, partendo da una delle tante spiagge del litorale e risalendo una fiumara. Esperienza tentata parzialmente in passato senza però aver mai raggiunto l’obiettivo.
Qualcuno propose di dividerci in gruppi di due, tre persone al massimo. Ciascun gruppo avrebbe dovuto risalire una fiumara fin dove possibile per raggiungere in contemporanea un luogo prestabilito, in quota, percorrendo poi tutti insieme l’ultimo tratto fino alla meta finale. L’impresa, della durata di due o tre giorni al massimo, avrebbe dovuto avere visibilità sulla stampa nazionale. Cercammo anche e trovammo degli sponsor.
La discussione si animò poi sulla scelta dei corsi d’acqua e si arrivò alla conclusione che le fiumare sarebbero state le tre più imponenti dell’Aspromonte orientale: Laverde, Bonamico e Amendolea e sette i partecipanti.

 

I preparativi.
I giorni a seguire furono di grande fermento. Si stabilì di partire a fine luglio sfruttando il periodo di secca delle fiumare. Eravamo consapevoli che un acquazzone, nelle gole dei corsi d’acqua, poteva essere fatale. Alcuni amici organizzarono un campo di accoglienza a 1400 metri di quota in località Canovai, più o meno equidistante dalle direttrici dei tre corsi d’acqua, punto d’incontro dei tre gruppi.
Per difendere l’attrezzatura fotografica adattammo allo scopo un bidone di plastica per il trasporto delle olive, uno per ciascuno, dotato di un grande tappo a vite perfettamente ermetico, che si rivelò utilissimo.
I giri di telefonate nei giorni che precedettero la partenza furono incessanti per confrontarci sul contenuto degli zaini, sull’abbigliamento, sull’attrezzatura, sul cibo e perfino sul contenuto della dotazione per il pronto soccorso. D’altra parte, un mal di testa o di pancia durante la risalita ci poteva anche stare ma se avessimo riportato una frattura a causa di una caduta, non avremmo avuto modo di avvertire qualcuno in tempi brevi (i cellulari ancora non esistevano e il Soccorso Alpino non era stato istituito). Dunque, affrontammo l’esperienza con una buona dose di incoscienza.
Un giorno prima di partire avvertimmo la più vicina Stazione dei Carabinieri sulla costa e tanto valse a farci stare relativamente tranquilli.

La partenza.
Il 31 luglio fummo accompagnati in auto da vari amici ai rispettivi punti di partenza. Andrea Ferraro e Franco Giuffrè alla foce della Bonamico, Massimo Baldari e Roberto Lombi sull’Amendolea, Alfonso Picone Chiodo, io ed un fotografo sulla Laverde.
Il giornalista e fotografo freelance Franco Barbagallo accettò con entusiasmo di partecipare alla spedizione. A lui fu affidato il compito di documentare e poi pubblicare un articolo che descrivesse questa avventura, uno dei tasselli fondamentali per raggiungere il nostro scopo.

La risalita della Laverde.
Ci incamminammo da Samo per affrontare subito una grande briglia oltre la quale iniziano le affascinanti gole (oggi note). Il cielo quel giorno era di un azzurro intenso, il caldo ancora sopportabile. Le gole, con le pareti a picco sul greto bianchissimo, offrivano uno scenario naturale formidabile.
La prima giornata trascorse in relativa tranquillità. La pendenza in quel tratto non era eccessiva e l’alveo, ancora regolare, ci consentì un’andatura sostenuta nonostante il peso degli zaini. Sperimentammo da subito l’uso dell’amuchina per sterilizzare l’acqua di fiumara al fine di renderla potabile, incrociando le dita.
All’imbrunire ci accampammo su di una piccola radura ai bordi del corso d’acqua. Montammo la tenda e preparammo la cena cotta su fuoco alimentato con legna recuperata sul posto. Poco più tardi fummo avvolti dal buio assoluto accompagnati dal costante ma lieve rumore di sottofondo dell’acqua in lontananza. Dormii poco e male ed ebbi spesso la tentazione di abbandonare la tenda ma poi mi addormentai, che quasi albeggiava.
La mattina del giorno seguente l’acqua profonda della fiumara ci costrinse spesso a trasbordare gli zaini e le attrezzature da una sponda all’altra usando un piccolo canotto assicurato ad una corda. Durante tutto il giorno non incontrammo anima viva e ebbi la sensazione di trovarmi in un luogo primordiale.
Durante le pause ristoratrici, il giornalista ci raccontava dei suoi viaggi di lavoro nel mondo. Teneva tuttavia a dire che ciò che stava vedendo e vivendo, già in quelle prime ore, non era da meno rispetto alle esperienze già vissute e questo ci riempiva di orgoglio.
La pendenza a un tratto aumentò di colpo. L’alveo si restrinse e macigni enormi ostruivano di continuo il passaggio. Oltretutto, un groviglio inestricabile di vegetazione sulle rive ci impediva di aggirare gli ostacoli. Si andava avanti con fatica, il più delle volte arrampicandosi. Il corso d’acqua divenne tumultuoso e spesso impossibile da guadare imponendoci di trovare continue soluzioni, spesso pericolose, per non rimanere bloccati.
Alla fine di questa seconda giornata fu facile addormentarsi.
Il terzo giorno ci svegliammo molto presto e dopo aver gustato un buon caffè fumante ci mettemmo tutti e tre intorno a una cartina topografica per decidere il da farsi, consapevoli che quella sarebbe stata una giornata cruciale. Prima o poi avremmo dovuto abbandonare il corso d’acqua e tentare la risalita lungo uno dei costoni di roccia. Frastornati dal rumore fragoroso delle cascatelle sempre più frequenti lungo l’alveo, dopo qualche ora di faticosa risalita, ci trovammo difronte ad una bellissima cascata, immersa in un contesto naturale straordinario. In base alle indicazioni fornite dalla cartina, capimmo di essere arrivati in località Cicutà, alla base delle già conosciute cascate Forgiarelle e dunque, in linea d’aria, abbastanza vicini al campo base. Alle due del pomeriggio, dopo un pasto frugale a base di miele e latte condensato, facemmo il primo tentativo di risalita di un impervio costone allontanandoci dal corso d’acqua ma questo tentativo andò a vuoto. Bastò percorrere un centinaio di metri in arrampicata per accorgerci che era impossibile proseguire da li.
Senza scoraggiarci torniamo indietro. Dopo un’altra occhiata alla cartina, tentiamo l’approccio sul versante opposto. Gravati dal peso degli zaini, scalammo il pendio a passi piccoli e lenti. Allontanandoci dalla fiumara, era tornato il silenzio. Dopo circa un paio d’ore molto faticose ci convincemmo di esserci mossi nella giusta direzione. Il cielo luminoso sopra di noi preannunciava la vicinanza del pianoro di Croce di Dio. Non ci sbagliavamo perché di lì a poco scollinammo e imboccato un agile sentiero arrivammo al casello di Canovai intorno alle cinque del pomeriggio.

 

L’incontro con gli amici.
Fummo accolti festosamente dagli amici che avevano allestito il campo ma degli altri due gruppi ancora nessuna notizia.
Il resto della giornata passò in relax, sdraiati su un tappeto d’erba e spiluccando gustose ciliegie da un paio di alberi con i rami a portata di braccia.
Montata la tenda, aiutammo nei preparativi della cena. Momento perfetto per snocciolare il racconto dei tre giorni precedenti ma il pensiero era rivolto costantemente ai nostri compagni d’avventura che ancora non si erano fatti vivi.

Il gruppo Amendolea.
Finalmente, un paio d’ore dopo, a notte già inoltrata, arrivarono al campo anche Roberto e Massimo, reduci dalla fiumara Amendolea. Erano stati costretti ad abbandonare l’alveo prima del previsto in zona Santa Trada a causa della franosità dei versanti e delle numerose cascate con enormi difficoltà nel guadagnare quota e raggiungere un sentiero percorribile. L’attraversamento del cantiere per la costruzione della diga del Menta, affluente dell’Amendolea, li aveva catapultati da ambienti incontaminati a una vallata sventrata.
Grazie al loro senso di orientamento erano riusciti però a raggiungere l’obiettivo ma la complessità del territorio li aveva costretti ad allungare di molto il tragitto.

 

Alla ricerca del terzo gruppo.
Qualche ora prima, tre volontari tra quelli che avevano allestito il campo, raggiunsero in automobile la località Materazzelli nel tentativo di incrociare gli ultimi due escursionisti che tardavano ancora ad arrivare. Vero è che, questi ultimi due, avrebbero dovuto affrontare un percorso più lungo per raggiungere il casello di Canovai ma l’entità del ritardo ci lasciava comunque in apprensione.
Oltrepassata la mezzanotte, non si era ancora visto nessuno. Regnava il silenzio. Eravamo già tutti in tenda dentro i nostri sacchi a pelo. Nonostante la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno pensando ad Andrea e Franco. Chi o cosa li aveva fermati? Mi addormentai molto tardi con questo pensiero in testa.
Di buon mattino, consumammo la colazione ma eravamo preoccupati. Ormai da molte ore non avevamo più notizie dei nostri amici e già si pensava di raggiungere anche noi in fretta la zona dell’ante cima per capire cosa fosse successo e casomai dare l’allarme. Smontato il campo, ci apprestammo ad affrontare a piedi la lunga sterrata in salita che da Canovai conduce a Materazzelli. Zaini in spalla, procedevamo in fila indiana a passo spedito, preoccupati ma speranzosi che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Giunti sul posto però non c’era anima viva e non passavano auto. Restammo ancora qualche ora nei paraggi, sempre più preoccupati e indifesi rispetto a quanto stava accadendo.
Ma finalmente li vedemmo spuntare stipati in cinque nella Fiat 127 di uno dei soccorritori, i quali ci raccontarono che la sera precedente, non vedendoli ancora arrivare, decisero di andargli incontro spostandosi con l’auto nei pressi del bivio per Polsi e poi in discesa per un breve tratto lungo la strada che porta al santuario. Dopo ricerche inconcludenti si ritrovarono al punto di partenza piuttosto scoraggiati. Solo più tardi seppero che i due, nell’impossibilità di proseguire lungo la fiumara oltre Polsi, avevano deciso di alleggerirsi abbandonando gli zaini e di muoversi lungo un percorso a quota costante portandosi in prossimità della medesima strada ma parecchio più a valle rispetto alla zona delle ricerche. A quel punto Andrea, prima che facesse buio, allungò il passo per raggiungere velocemente la zona di Materazzelli. Arrivò stremato ma, per fortuna, trovò i soccorritori ad attenderlo. Data l’ora, decisero poi di raggiungere Francesco, rimasto ai bordi della strada più a valle e pernottare tutti e cinque presso il casolare di un amico nei pressi di Gambarie raggiungendoci il mattino seguente.

 

In cammino verso la cima dell’Aspromonte.
Finalmente si poteva proseguire tutti insieme verso il traguardo finale e intorno alle otto di sera ci ritrovammo seduti in cerchio, sotto la grande statua del Redentore, con un bel fuoco scoppiettante al centro. Tra un racconto e l’altro, il sole spariva dietro i Peloritani regalandoci un tramonto superbo dal colore rosso porpora. Con un ultimo sguardo rivedemmo il tortuoso ma affascinante percorso che le fiumare e noi avevamo compiuto.

 

Le pubblicazioni.
Nei giorni che seguirono mettemmo in atto la seconda parte del progetto: pubblicare su riviste nazionali il resoconto di quella spedizione, impazienti di mostrare un Aspromonte selvaggio ma anche affascinante, naturalisticamente pregevole e che si voleva liberare dalla criminalità.
E ci riuscimmo. Gli articoli non tardarono ad arrivare in edicola, suscitando curiosità e interesse diffuso. https://www.laltroaspromonte.it/portfolio-articoli/fiumare-daspromonte/
Era solo l’inizio ed eravamo ben consapevoli che la cattiva fama è difficile da sradicare. Tuttavia, la strada era stata tracciata e, proseguendo con tenacia e passione, avremmo potuto contribuire a migliorare le sorti di questo martoriato territorio.

N.B.: la documentazione fotografica di quest’avventura che risale al 1986 è andata purtroppo in gran parte dispersa. I luoghi attraversati furono poi, anche grazie alla nostra promozione, documentati ampiamente. Preferiamo però pubblicare solo le rare immagini dell’epoca.

L’interesse su questo toponimo, riportato nella carta IGMI in agro di Cardeto e nei pressi dei Piani di Salo lungo la strada per il lago del Menta, mi nacque anni fa quando il pastore Vincenzo Romeo u Croccu, in un’intervista che gli feci, raccontò un curioso aneddoto su di  un personaggio detto Maddà. Lo divulgai e l’attento Pasquale Faenza aggiunse elementi alla narrazione richiamando un personaggio storico quale Berengario Maldà di Cardona, barone di Amendolea nella seconda metà del XV secolo. Maddà (alla francese) è soprannome attestato nell’area grecanica. Per gli anziani di Roghudi e Gallicianò è proverbiale la prepotenza del barone che secondo la tradizione fu eliminato dal suo stesso fratello, che era invece un famoso difensore dei poveri e del basso popolo.
Maddà uccideva per un nonnulla ed esercitava lo ius primae noctis su tutto il vasto territorio in cui si estendeva il suo potere.
Una canzone greca raccolta a Bova prende in giro gli amendolesi definendoli “oli mularia tu Maddà ce tu abbatiu”, tutti figli spuri di Maddà e dell’abate.
Seguendo uno schema tipico dei romanzi di tradizione orale, quello che prevede la lotta tra un personaggio negativo ed un vincente eroe positivo ricco di coraggio, forza e astuzia, Lorenzo Zavettieri di  Ghorio di Roghudi raccontava vita, morte e cattiverie di Maddà. Fu addirittura il celebre brigante Nino Martino, riferisce Lorenzo, che affrontò e uccise Maddà in un bosco dell’Aspromonte. Tant’è che proprio vicino alla località Mano di Maddà troviamo la contrada Cacciadiavoli, soprannome del brigante. Ma le coincidenze non finiscono qui. Poco oltre vi è la Testa dell’Uomo: che non sia quella di Maddà!
Il bene trionfò alla fine di uno scontro fratricida, poichè la tradizione vuole che Maddà e Nino fossero “figghi di na sula mamma”.

Alcune di queste notizie le ho trovate in C. Mangiola-V. Santagati, Le vacche sono anime del purgatorio, 2000 e F. Nucera, Rovine di Calabria, 1974

https://www.facebook.com/altroaspromonte/videos/507625533813301

di Giuseppe Arcidiaco

PREMESSA
Il 9 aprile 1928, con decreto firmato da Mussolini e da Re Vittorio Emanuele III, il regime fascista sopprime lo Scautismo in Italia. Con lo scioglimento dell’A.S.C.I. e delle altre associazioni scout italiane, l’educazione fisica e morale dei giovani è affidata alle autorità fasciste che con l’Opera Balilla ne orientano il pensiero verso gli ideali del partito.

LA RESISTENZA A MILANO E MONZA 
Nel giorno di San Giorgio dello stesso anno, mentre le insegne dei Riparti milanesi vengono simbolicamente deposte sull’altare dell’arcivescovado, gli scout del Milano 2° pronunciano una Promessa che è un atto di ribellione e segna l’inizio dello scautismo clandestino milanese e monzese delle Aquile Randagie.
Una lunga storia di passione e fedeltà all’ideale scout, un’esperienza di resistenza che durerà per tutto il periodo della Giungla Silente fino al 1945, un giorno in più del Fascismo, divenuto il loro motto. Periodo durante il quale gli scout ribelli rischiarono la vita e alcuni la persero per continuare le attività ed i campi, in particolare in Val Codera, facendo sopravvivere il movimento scout in Italia alla dittatura ed alla guerra.
Organizzarono, coinvolgendo sacerdoti, suore e giovani volontari, soccorso a feriti e salvataggio di perseguitati politici e ricercati di diversa nazionalità, etnia e religione, aiutati ad espatriare con documenti falsi in territori neutrali oltre le Alpi. I fondatori del gruppo delle Aquile Randagie furono Giulio Cesare Uccellini (Capo Riparto del Milano 2°) e il sacerdote don Andrea Ghetti, con nomi in codice rispettivamente Kelly e Baden. Dopo il 25 Aprile 1945 si dedicarono alla rinascita dello Scautismo italiano ed a proteggere dalla vendetta fascisti e tedeschi in ritirata.

 

LA RESISTENZA IN ASPROMONTE 
Meno nota è l’avventura dei Lupi d’Aspromonte, probabilmente la più importante esperienza di scautismo clandestino italiano dopo quella delle Aquile Randagie, durata dal 1928 al 1944. Un gruppo di scouts della sezione del Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (C.N.G.E.I.) di Reggio Calabria rifiutarono l’oppressione del pensiero unico fascista e, tenendo fede ai valori della Promessa e della Legge Scout, decisero di continuare a riunirsi in segreto, grazie all’iniziativa dei capi Pino Romeo (Capo Branco), Cesare Cremisini (Capo Riparto) e Nicola Serini (Lupo Saggio il totem, ovvero nome di caccia, soprannome).
Dopo la chiusura della sede di via Tribunale, individuarono una baracca di legno che aveva ospitato alcune famiglie di terremotati del 1908 sulla spianata di San Prospero, sotto la Collina degli Angeli e, con la complicità del sacerdote dell’Opera Antoniana, don Matteo, vi aprirono la sede del G.S. San Prospero, dove l’acronimo G.S., ufficialmente Gruppo Sportivo, alludeva, invece, a Gruppo Scout. Qui, in particolare il sabato fascista, i giovani (oltre trenta, un Branco ed un Riparto), dedicandosi ufficialmente ad allenamenti ed esercizi ginnici, sperimentavano le tecniche scout (nodi, pionieristica, gioco dello scalpo) e programmavano uscite in tenda. I capi, nelle vesti di istruttori sportivi, tenevano vivo il metodo di Baden Powell, fondatore dello scautismo, che parlava sì di salute e forza fisica (e questo fu di ispirazione per l’addestramento dei Balilla), ma anche di vita all’aperto, libertà, lealtà, fraternità, formazione di uomini onesti e cittadini preparati e responsabili. Due sentinelle presidiavano gli ingressi della sede, pronte a dare l’allarme in caso di ronde della polizia: al loro segnale iniziava la simulazione dell’allenamento con le attrezzature per il salto in alto.
In estate, finalmente in uniforme scout, la resistenza si spostava in Aspromonte: Serra Petrulli (villaggio De Leo), Sureto di Podargoni (località riportata sulle carte IGMI con il toponimo Segreto), Embrisi, Cerasi, Piani di Bosurgi erano alcuni dei luoghi, rigorosamente isolati e difficili da raggiungere, in cui venivano allestiti i campi di pattuglia. Li raggiungevano dopo oltre sette ore di cammino su sentieri ripidi e tortuosi, partendo da Vito, frazione dell’entroterra di Reggio. Gli zaini carichi dello stretto indispensabile: attrezzi da lavoro, corde, lampade a petrolio, borracce e le tende mimetiche Aspromonte. Periodicamente Lupo Saggio faceva visita alle pattuglie, raggiungendole sul posto, per assicurarsi della loro incolumità. Si dedicavano alle costruzioni col legname, allo studio della flora, al riconoscimento di tracce, alle escursioni nei boschi, alla topografia, ai bivacchi.
Ecco un’altra pagina sconosciuta delle nostre montagne, che, per il loro carattere aspro e selvaggio, offrirono riparo alle avventure di questi giovani esploratori clandestini, costretti a vivere nell’ombra, mimetizzando le loro tende con frasche, predisponendo sentinelle e turni di guardia durante le ore notturne, rifornendosi d’acqua alle sorgenti spesso note solo ai locali o ai latitanti.
La partecipazione, in veste non ufficiale, al Quarto Jamboree Mondiale dello Scautismo (Ungheria, 1933) e l’incontro con Baden Powell coronò la resistenza dei Lupi d’Aspromonte.

 

L’ULTIMO DEI LUPI
L’ultimo dei Lupi d’Aspromonte è Oreste Serini (totem Giraffa Bianca) nato il 28 settembre 1929, iscritto al Branco nel 1934 all’età di cinque anni, testimone e memoria storica delle imprese del padre Nicola. Il 30 agosto 2019 Oreste è stato insignito del collare dell’Ordine Scout di San Giorgio, la più alta onorificenza C.N.G.E.I. La cerimonia non poté che tenersi nei boschi dell’Aspromonte, nella base scout di Forge, tutt’oggi meta di campi ed uscite per gruppi scout.
Oreste Serini, fondamentale figura dello scautismo italiano, ha contribuito alla ricostituzione dei gruppi scout reggini dopo il 1945: dapprima negli ambienti cattolici dell’A.G.E. (Associazione Giovani Esploratori d’Italia) e successivamente, negli anni 1947-49 insieme al prof. Raimondo Zagami, nel rinato C.N.G.E.I.
Infaticabile viaggiatore a piedi ed in moto, ha attraversato l’Europa e l’America partecipando a Jamboree ed eventi scout internazionali (Danimarca nel 1946, Norvegia, Grecia, Austria nel 1951, Inghilterra nel 1957, Canada, USA, ecc.), tutti documentati nel suo archivio che conta oltre cinquecento fotografie ed un fitto scambio epistolare con capi scout di fama mondiale, tra cui Lady Olave Baden Powell, vedova del fondatore del movimento Scout.
Siamo andati a trovarlo e lo abbiamo intervistato. Della sua infanzia, durante la Giungla Silente, ricorda in particolare la doppia veste del sabato: Figlio della Lupa la mattina e Lupetto il pomeriggio al San Prospero. Il passa-parola per concordare le riunioni, l’appoggio di un monaco dell’Eremo, le marce delle milizie tedesche che facevano tremare il pavimento di casa, le adunate alla Casa del Fascio.
E nonostante la clandestinità tante furono le escursioni in Aspromonte: la salita alla vetta di Montalto, la route Gambarie-Polsi con pernottamento negli alloggi dei pellegrini che si recavano alla Madonna della Montagna, un campo al laghetto Rumia, la route di cinque giorni Bivongi-Reggio e molte altre.
Una pagina poco conosciuta di un altro Aspromonte.

 

Fonti:
Mario Isella, Fedeli e Ribelli, Edizioni Scout-Fiordaliso
Carlo Verga, Vittorio Cagnoni, Le Aquile Randagie, scautismo clandestino lombardo nel periodo della Giungla Silente 1928-1945, Edizioni Scout-Fiordaliso
Archivio Oreste Serini
https://www.agesci.it/
http://www.monsghetti-baden.it/fondazione/portale_fondazione.htm
Video-testimonianza di Oreste Serini: https://fb.watch/pqxdfXx9m0/

di Joseph Moricca

Narra la leggenda di una maga che da tempi immemorabili abita nelle viscere dell’Aspromonte a guardia dei segreti della montagna. In un giorno di pioggia in cui il cielo sembrava trascinare a valle ogni cosa, un vecchio pastore risalì la valle del Bonamico in compagnia del figlio giovinetto: voleva convincere la maga a placare la furia degli elementi. La donna apparve in un turbine di vento in cima alla montagna e, ascoltate le parole del vecchio, vide il giovane e se innamorò perdutamente. Ella allora chiese al pastore di avere in cambio il suo figliolo, ma quello rifiutò sdegnato. Accecata dall’ira, la maga batté un piede sulla montagna che, con enorme fragore, precipitò sul pastore seppellendolo. Il giovane, rimasto solo e disperato, pianse tutta la notte. A poco a poco le sue lacrime formarono un lago nel quale la maga – dicono i pastori di quelle parti – ancora di tanto in tanto va a specchiarsi.
Fin qui la leggenda ma per chi non vi crede il lago nacque nella notte del 3 gennaio 1973 quando l’alveo della fiumara Bonamico (San Luca), in un tratto a monte del centro abitato, fu improvvisamente ostruito da circa 12 milioni di metri cubi di materiale in frana che precipitò da un costone ad una velocità assai elevata. Alcuni capi di bestiame vennero travolti ma per fortuna non si ebbero né feriti né perdite umane.
A monte dello sbarramento, nel giro di pochi giorni, l’acqua della fiumara riempì il bacino creando un lago di notevoli dimensioni che dagli anni ‘80 in poi fu meta di migliaia di escursionisti attratti dalla singolare bellezza del paesaggio.
Inizialmente il lago fu chiamato “degli oleandri”; successivamente venne denominato Costantino, in quanto la località dalla quale si staccò la frana ospita i ruderi di un monastero d’origine basiliana segnalato tempo addietro dal prof. Domenico Minuto.
Questa meraviglia naturale a distanza di circa trent’ anni dalla sua nascita è scomparsa del tutto a causa dell’inevitabile cospicuo trasporto solido di materiale alluvionale proveniente da monte che pian piano ha interrato il lago. La fiumara è tornata padrona e oggi solo chi conosce questa particolare storia riesce a distinguere il luogo esatto dove avvenne il singolare fenomeno.
Nel corso della sua vita il lago e il bacino che lo ospitò furono oggetto di interesse da parte di importanti centri di ricerca italiana ed europea per studiare e monitorare la situazione morfologica e stratigrafica che ha caratterizzato il raro evento della formazione di un lago naturale in un contesto geologico davvero singolare quale quello aspromontano.
In Italia i fenomeni franosi sono abbastanza frequenti data la particolare fragilità del territorio ed esistono un certo numero di laghi che si sono formati proprio a causa dello sbarramento di un corso d’acqua provocato da una frana. Si tratta quasi sempre di frane da “crollo” che interessano terreni in roccia compatta e che determinano sbarramenti piuttosto tenaci dando vita a laghi che possono durare anche secoli: es. laghi alpini di Molveno (Trento), Santa Croce (Belluno), Tenno (Trento), ecc.
Il lago Costantino si è formato a causa di una frana generata dallo scivolamento, su sottostante strato granitico, di un ammasso roccioso di tipo “sciolto” avente spessore di circa 30 metri, infiltrato da abbondante acqua meteorica. In questi casi il corso d’acqua demolisce in breve tempo la fragile diga naturale riportando la situazione ai livelli originari. Il piccolo straordinario lago Costantino, nonostante lo sbarramento non fosse particolarmente resistente, è durato circa trent’anni e cioè oltre ogni rosea previsione. Uno dei motivi di questa inaspettata “longevità” sta nel fatto che, dopo appena qualche giorno dall’evento, il Bonamico ha brevemente riempito il bacino formando il lago ma allo stesso tempo ha trovato una via d’uscita attraverso il corpo di frana e ciò ha permesso un flusso regolare dell’acqua a valle in perfetto equilibrio con il flusso dell’acqua proveniente da monte. Inesorabile poi l’interramento, come si è detto, a causa della cospicua quantità di detriti che la fiumara ha trascinato con sé decretando la fine di questo spettacolare laghetto aspromontano. La natura ha le sue leggi alle quali inutilmente tentiamo di opporci: la pioggia lo ha generato e la pioggia se l’è ripreso.

Postilla: può sembrare strana l’esistenza di una leggenda su di un lago, formatosi così di recente. Tale fenomeno tuttavia, in Aspromonte, è ricorrente tant’è che in una platea (elenco dei possedimenti) del Monastero di Polsi del 1685 è incluso uno specchio d’acqua. Infine, nel poema epico francese Chanson d’Aspermont del XII secolo, e poi nell’Aspramonte di Andrea da Barberino del XV secolo, il duca Namo, cavalcando per via montana da Reggio «verso Aspramonte», deve attraversare un grande fiume e poi si trova in una valle dove le pietre «rovinate dalla montagna» hanno formato «uno piccolo lago».

La leggenda è stata raccolta da Nino Armao nel 1985

Le foto sono di Antonio Delfino, Antonino Letto, Antonio Pelle, Alfonso Picone Chiodo, Archivio L’altro Aspromonte, Archivio CAI Edelweiss

Video sul lago