di Luigi Dattola e Gianpaolo Barone

La Calabria è stata oggetto di sfruttamento minerario fin dall’epoca preistorica, tuttavia, sono poche le testimonianze scritte ed i reperti archeologici che possono essere riferiti con sicurezza a queste attività, almeno fino al 1700. Le tracce più antiche di sfruttamento minerario sono quelle di età tardo paleolitica trovate nella Grotta della Monaca, situata nel territorio di Sant’Agata d’Esaro (CS). Qui, già in epoca protostorica, si estraeva e lavorava la goethite, un minerale di ferro, inizialmente prelevato presso l’imbocco della grotta e successivamente all’interno, con attività minerarie che si sono protratte almeno fino al 3500 a.C. Le lavorazioni non riguardavano minerali da impiegare nella costruzione di manufatti metallici ma solo per la produzione di pigmenti colorati, che venivano utilizzati negli scambi commerciali dell’epoca. Il sito è riconosciuto come una delle miniere più antiche e meglio conservate d’Europa. In generale, sporadiche e incerte sono le altre testimonianze, tra le quali un diploma di Ruggero il Normanno del 1094 con il quale si concede ai monaci certosini lo sfruttamento del ferro nel comprensorio di Stilo e Pazzano. Non è priva di suggestione, però, la possibilità che già in epoca greca e romana alcune piccole lavorazioni fossero attive come suggeriscono alcuni reperti archeologici e strutture metallurgiche rinvenute nella Locride, studiate da Franco (2003) e Cuteri (2017). Un indizio a sostegno di questa ipotesi proviene da uno studio del 2015 che ha analizzato gli ossidi di ferro utilizzati come colorante delle malte del mosaico della Sala dei Draghi e dei Delfini dell’antica Kaulonía (odierna Monasterace Marina), dimostrando una corrispondenza chimica perfetta con i minerali estratti nelle aree di Stilo, Pazzano e Bivongi. Sebbene questa ricerca non sia conclusiva, rappresenta un importante tassello per avvalorare l’ipotesi che i giacimenti limonitici potessero essere già noti e sfruttati durante il periodo della Magna Grecia (Miriello et al. 2015)
Fatta eccezione per queste poche testimonianze si registra una lunga lacuna documentaria, interrotta solo da sporadici riferimenti, come quello relativo alle miniere di Longobucco, la cui attività è attestata almeno dal XII secolo. La scarsità di fonti documentali, tuttavia, non esclude che le attività minerarie e industriali di trasformazione dei minerali in Calabria abbia avuto continuità nel tempo.
Solo a partire dal XVIII secolo le testimonianze diventano più numerose e dettagliate, permettendo di ricostruire con maggiore precisione lo sviluppo delle attività minerarie nella regione, concentrate in aree specifiche come Lungro (fig 1), Longobucco (fig 2), Pazzano, Stilo, Bivongi, il Marchesato crotonese (fig 3) e Reggio Calabria. In queste aree le miniere vantavano una storia più antica, mentre in località come Mormanno, Catanzaro, Gimigliano, Caulonia, Roccella Ionica, Mammola e Canolo l’estrazione ebbe inizio in epoche più recenti. Questa fase storica, ben documentata, mostra come la Calabria abbia mantenuto una rilevante vocazione mineraria fino al XX secolo, nonostante i periodi di oscurità documentale precedenti, lasciando tracce significative nel paesaggio e nella storia economica della regione (Dattola L. e Barone G., 2024).

 

Le miniere di ferro di Stilo, Pazzano e Bivongi
Volendo analizzare più in dettaglio le attività minerarie nella provincia di Reggio Calabria bisogna innanzitutto sottolineare che, fatta eccezione per il Marchesato crotonese, dove si estraeva zolfo, il comprensorio di Stilo, Pazzano e Bivongi e delle immediate adiacenze è certamente quello, nella regione, cui appartengono la storia mineraria più lunga e le dimensioni maggiori. Lo sfruttamento era mirato prevalentemente all’estrazione del ferro, sotto forma di limonite (ossido di ferro, fig 4), e subordinatamente di pirite (solfuro di ferro, fig 5) che comunque si trasforma in ossido per alterazione. Le mappe d’epoca segnalano a partire dal 1700 un’intensa attività estrattiva alla base della dorsale montuosa costituita dai monti Consolino, Stella, Mammicomito e Gallo (fig 6). Le gallerie di sfruttamento venivano aperte alla base dei calcari mesozoici (circa 200 Milioni di anni) costituenti l’allineamento montuoso, proprio in corrispondenza del contatto con le sottostanti rocce metamorfiche paleozoiche (circa 350Ma). Sotto la dominazione dei Borboni, le miniere come le attività siderurgiche venivano controllate dai militari con l’evidente scopo di gestire direttamente la produzione orientando prevalentemente l’impiego del ferro nella realizzazione delle armi necessarie al mantenimento del Regno (fig 7 e 8). Le altre attività minerarie nell’area sono, come già accennato, più recenti e strettamente legate agli eventi storici che hanno caratterizzato la prima metà del secolo scorso, in particolare il periodo successivo al 1935. In quell’anno l’Italia invadeva l’Abissinia (attuale Etiopia), atto che portò la Società delle Nazioni (equivalente dell’odierna ONU) a imporre sanzioni al paese. Già prima di quell’evento il regime fascista aveva iniziato a promuovere l’autarchia, ovvero una politica di autosufficienza economica, finalizzata a ridurre la dipendenza del Paese dalle importazioni di materie prime e beni provenienti dall’estero. Tale politica fu promossa e intensificata soprattutto dopo l’imposizione delle sanzioni.
Furono condotte prospezioni minerarie e alcuni siti dichiarati idonei per l’avvio degli sfruttamenti. Tra questi l’area nel territorio di Bivongi per lo sfruttamento della molibdenite e le aree nei territori di Caulonia/Roccella Ionica e Mammola per lo sfruttamento dell’arsenopirite.

 

Le miniere di molibdenite di Bivongi
Il minerale, segnalato già nel 1788 da Fasano nelle località Pungo, oggi Punghi, e successivamente da altri autori come Matteo Spica ed Emilio Cortese, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, è costituito da lamelle a contorno esagonale incluso nei filoni di quarzo o anche nelle granodioriti (rocce ignee intrusive) in prossimità degli stessi filoni (fig 9).
Nonostante la conoscenza della molibdenite risalga alla seconda metà del XVIII secolo, è solo circa cento anni dopo che si inizia a sfruttarne le caratteristiche utilizzando il molibdeno come sostituto del tungsteno e come indurente delle leghe di acciaio; l’utilizzo in questi ambiti favorì lo studio e lo sviluppo di leghe di acciaio al molibdeno all’inizio del XX secolo per la produzione di armi, presumibilmente anche per l’avvicinarsi del periodo bellico.
Nell’area di Bivongi le attività minerarie ebbero inizio nel 1917, avviate dalla “Società Mineraria Torelli e Re” di Roma.  Lo sfruttamento più importante venne eseguito presso il Cantiere Giogli, lungo il torrente Pardalà (fig 10).

 

Miniera Cerasara di Caulonia e Roccella Ionica
Il minerale estratto nell’area tramite alcuni cunicoli di piccola dimensione è stato l’arsenopirite (fig 11). Il materiale veniva trasportato all’esterno e, tramite un sistema di teleferiche, portato a valle sulla fiumara Amusa da dove veniva successivamente smistato. La circostanza che le coltivazioni minerarie erano localizzate in un territorio sostanzialmente privo di una vera e propria viabilità limitò le lavorazioni (fig 12).

Miniera Macariace di Mammola
Nel territorio di Mammola, lungo il torrente Macariace, affluente di sinistra del Torbido, sono segnalate mineralizzazioni ad arsenopirite (fig 13). In queste mineralizzazioni vennero avviate estrazioni minerarie tra gli anni ’20 e gli anni ’40 del secolo scorso. Gli sfruttamenti seguirono i filoni che con andamento subverticale attraversano i paragneiss del Complesso di Mammola (rocce metamorfiche).
L’estrazione dell’arsenopirite come della molibdenite fu portata avanti solo nel periodo autarchico italiano e cessò pressappoco in concomitanza della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Le attività minerarie in Aspromonte
Più a sud, nelle vicinanze di Reggio Calabria, alle pendici del massiccio aspromontano, sono segnalate attività minerarie nel comune di Motta San Giovanni e nel comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Riguardo sempre l’Aspromonte, nel 2021 è stato pubblicato un interessante articolo che descrive una minuziosa ricerca di attività siderurgico minerarie condotta nelle aree interne del massiccio, poco battuto dagli archeologi rispetto alle aree costiere (Robb J. et al., 2021). Il lavoro segnala la presenza di notevoli quantità di scorie di lavorazione del ferro rinvenute in prossimità di località Ferraina, poco distanti le une dalle altre. Analisi condotte con la fluorescenza ai raggi X segnala una significativa presenza di ferro sia nelle scorie che nella roccia affiorante, facendo pensare che per le lavorazioni si siano utilizzati minerali rinvenuti nelle prossimità.
A parte ciò, le segnalazioni di attività minerarie e/o metallurgiche sono molteplici ma solo delle tre indicate disponiamo, al momento, di informazioni sufficienti per riconoscerne la fondatezza. Certamente è documentata in numerose località della cintura sud-occidentale dell’Aspromonte la presenza di mineralizzazioni a pirite, ematite, magnetite, calcopirite e galena.
Le due aree di interesse minerario di cui si dispone di documentazione e di prove tangibili delle attività estrattive ancora osservabili sul territorio, possono essere collocate storicamente tra la metà del 1700 e la metà del 1800, quindi nel periodo Borbonico.

 

Area mineraria di Valanidi (RC)
Si trova riportato in un volume scritto da Melograni, “Descrizione geologica e statistica di Aspromonte e sue adiacenze” del 1823, di alcune miniere di rame lungo il corso del torrente Valanidi che, gestite dai tedeschi, avevano fornito minerale alle fonderie di Reggio Calabria. Tuttavia, a parte il minerale estratto dal cunicolo lungo lo Stroffa, affluente del Valanidi, le ricerche non avevano dato esito ed erano state per questo abbandonate.
Tali notizie, comunque, dovevano aver avuto un certo rilievo e suscitato interesse dal momento che a più riprese numerosi autori, tra cui anche l’allora autorevole Cortese ne aveva fatto cenno in un suo volume del 1895.
La località si trova nelle vicinanze del centro abitato di Trunca ed era stata esplorata con rilievi di superficie e, come già accennato, attraverso la realizzazione di piccoli cunicoli scavati a mano nella dura roccia metamorfica che caratterizza i luoghi (fig 14 e 15). I luoghi sono stati in parte indagati con lo scopo di determinare i minerali presenti, tra questi si segnalano: azzurrite, malachite, calcantite e woodwardite (figure 16, 17, 18). A petra virdi di Trunca
Gli sfruttamenti ebbero un certo impulso tra il 1750 e il 1760, sotto il regno di Carlo III e della moglie Maria Amalia di Sassonia. Vennero chiamati a lavorare e istruire le maestranze locali anche minatori esperti sassoni e fu costruita una ferriera in località Arangea per la lavorazione del minerale (Clemente, 2012). Secondo alcuni ricercatori il minerale proveniva da tutto il circondario e perfino dalle miniere siciliane di Fiumedinisi. Nel 1759 Carlo III fu chiamato sul trono di Spagna e abdicò in favore del figlio Ferdinando di appena 8 anni, assistito da un Consiglio di Reggenza. La miniera perse di interesse a favore di quelle di Stilo, Pazzano e Bivongi, verso le quali vennero indirizzati tutti gli sforzi economici, causando un repentino abbandono delle aree.

 

Le miniere di magnetite di Sant’Eufemia d’Aspromonte
In una recente visita all’Archivio di Stato di Reggio Calabria, grazie all’aiuto del personale che si è prestato con interesse e curiosità, e di ciò ringraziamo tutti loro e la Direttrice dell’Archivio, è stato visionato un carteggio significativo che riguarda alcune attività minerarie portate avanti nel territorio comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte. La documentazione, che abbraccia un periodo storico a metà del 1800, riporta di Agostino Chirico che segnala il ritrovamento del minerale di ferro poco a nord di S. Eufemia. Sono del 1859 alcuni documenti che citano i fratelli Agostino e Rocco Chirico, i quali fanno anche redigere una mappa del territorio e dei luoghi di rinvenimento del minerale, definito “pietra calamitata” alludendo al fatto che attrae gli oggetti ferrosi e che può perciò identificarsi con la magnetite. Vari furono i tentativi dei Chirico di accreditarsi presso i Borboni per ottenere le concessioni di sfruttamento (fig 19) ma, nonostante le analisi fatte sui materiali che fornirono tenori di ferro con percentuali sulla ganga (materiale non utile) superiori a quelli delle aree minerarie poste più a nord, pare non vi fu un vero interesse da parte dei regnanti. Qualche attività, tuttavia, deve essere stata intrapresa, prova ne è la corrispondenza del 13 ottobre 1859 tra il Sottointendente di Palmi e il Signor Intendente di Reggio Calabria nella quale si autorizza la cerimonia di benedizione di una galleria mineraria denominata San Francesco (fig. 20). Ammettiamo di non aver ancora avuto modo di visitare i luoghi ma ci è stato riportato del ritrovamento di alcuni ciottoli di materiale dall’aspetto ferroso (comunicazione personale di Massimiliano Scarfò) che lascia presupporre proprio la presenza del minerale.

 

Didascalie delle immagini

  1. cartolina d’epoca rappresentante l’ingresso della miniera di salgemma di Lungro (CS).
  2. Galleria di sfruttamento della galena argentifera. Longobucco (CS)
  3. Calcarone, struttura adibita alla “cottura” della roccia solfifera per l’estrazione dello zolfo. Miniera Santa Domenica. Melissa (KR).
  4. Campione di ossido di ferro (limonite), da cui veniva estratto il ferro per la costruzione di manufatti durante la dominazione dei Borboni.
  5. Pirite, solfuro di ferro.
  6. Monte Consolino a sinistra e monte Stella a destra, alla base dei due rilievi si aprivano le miniere da cui veniva estratto il ferro.
  7. Imbocco di miniera per l’estrazione del ferro. Bivongi (RC)
  8. Ferriera di Mongiana
  9. Molibdenite, cristalli a contorno esagonale.
  10. Cantiere Giogli, area mineraria da cui veniva estratta la molibdenire
  11. Arsenopirite, solfuro di ferro e arsenico
  12. La miniera Cerasara di Caulonia e Roccella Ionica
  13. La miniera Macariace di Mammola. In alto piazzale principale della miniera, dove sono state realizzate alcune gallerie di estrazione. Evidenti i cumuli di detrito ocraceo ricco in ossidi di ferro.
  14. Costone roccioso con trasudazioni di acque ricche in carbonati e solfati di ferro e rame
  15. Costone roccioso con trasudazioni di acque ricche in carbonati e solfati di ferro e rame
  16. Azzurrite su matrice rocciosa costituita da gneiss
  17. Associazione di microcristalli di azzurrite e malachite
  18. Microcristalli di calcantite
  19. Documento che riporta delle richieste dei sig.ri Chirico alle autorità al fine di ottenere le concessioni di sfruttamento della “pietra calamitata” di Sant’Eufemia d’Asromonte.
  20. Autorizzazione alla benedizione della galleria S. Francesco della miniera di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Fonti

  • Clemente G. (2012) – Archeologia mineraria nella Calabria meridionale tra Medioevo ed età contemporanea. Dati preliminari sulle miniere del Valanidi nei comuni di Reggio Calabria e Motta San Giovanni (RC). VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, L’Aquila 12-15 settembre 2012.
  • Cuteri F.A. (2017) – Kaulonia e l’attività mineraria e metallurgica nella Calabria Achea. Atti del cinquantasettesino convegno di studi sulla Magna Grecia. Taranto 28-30 settembre. 821-859.
  • Dattola L. e Barone G. (2024) – Minerali della Calabria GML-AMI, pp 256
  • Fasano A. – Saggio geografico fisico sulla Calabria Ulteriore. Atti della Reale Accademia delle Scienze e Belle Lettere, Napoli 1788.
  • Franco D. (2003) – Il ferro in Calabria. Vicende storico-economiche del trascorso industriale calabrese. Kaleidon – Reggio Calabria, pp 176
  • Melograni G. – Descrizione geologica dell’Aspromonte e sue adiacenze con aggiunta di tre memorie concernenti l’origine dei vulcani, le grafiti di Olivadi e le saline delle Calabrie. Napoli 1823.
  • Miriello D., De Luca R., Bloise A., Dattola L., Mantella G., Gazineo F., De Natale A., Iannelli M.T., Cuteri F.A., Crisci G. M. (2015) – Compositional study of mortars and pigments from the “Mosaico della Sala dei Draghi e dei Delfini” in the archaeological site of Kaulonía (Southern Calabria, Magna Graecia, Italy). Archaeological and Anthropological Sciences Vol. 9, p 317-336.
  • Robb J., & Meredith S. Chesson M.S., Forbes H., Foxhall L., Foxhall-Forbes H., Kay Lazrus P.K., Michelaki K., Picone Chiodo A., Yoon D. (2021) – The Twentieth Century Invention of  Ancient Mountains: The Archaeology of Highland Aspromonte. International Journal of Historical Archaeology 25:14–44.

di Giuseppe Arcidiaco

Un sito di considerevole interesse geologico, antropologico e naturalistico in Aspromonte è senza dubbio la grotta della Làmia, situata nel territorio di Fossato (Montebello Ionico). Ad oggi, questa grotta rappresenta la più estesa formazione ipogea naturale nota nella provincia di Reggio Calabria.
L’etimologia del toponimo è incerta: potrebbe derivare dal greco laimos che significa gola, da cui anche lamyros, avido, ingordo. Una radice legata dunque all’aspetto del suo ingresso che ricorda la bocca aperta di un vorace mostro. Nel dialetto locale, il termine làmia (1) ha assunto, pertanto, il significato di cavità sotterranea con copertura a volta o, semplicemente, grotta. Tale denominazione affonda le sue radici nel passato magnogreco della provincia di Reggio Calabria, dove sono riscontrabili diversi toponimi simili. È possibile, dunque, che, nel tempo, il termine làmia abbia finito per indicare genericamente cavità con determinate caratteristiche morfologiche che ricordino una bocca dentata o trasmettano l’idea di voracità.

Tra mito e tradizione
Nella mitologia classica ed orientale esistono differenti versioni del mito di Làmia (2) che, negli anni, si sono contaminate con credenze popolari ed elementi tradizionali. Secondo il racconto maggiormente diffuso, Làmia (3) era la bellissima regina della Libia figlia del re Belos e di Libye, della quale si innamorò Zeus. Ciò suscitò l’ira di Era che, arsa dalla gelosia, si vendicò dell’amante del marito privandola del sonno e sterminando la loro numerosa progenie. Resa folle dal dolore e dalla disperazione, Làmia si trasformò in una creatura mostruosa e vendicativa, dedita a rapire e divorare i figli altrui, spinta dall’invidia per le madri felici. Làmia, ormai mutata nell’indole e nell’aspetto, trovò rifugio nel buio delle grotte, mostrando all’esterno solo le proprie fauci spalancate. Secondo altre versioni del mito, Làmia sarebbe stata la madre del mostro Scilla o, ancora, della maga e veggente Sibilla (4). Molte leggende, tramandate dagli abitanti di Fossato, aleggiano sulla grotta, un antro in grado di inghiottire uomini e bestiame, perfino intere greggi. A causa di tale superstizione, la grotta era temuta dagli abitanti del luogo che evitavano di avvicinarvisi, specialmente nelle ore notturne. Alcuni racconti parlano, infatti, di un mostro o di un drago, che trascinava le proprie vittime nella grotta e, certe notti, era anche possibile sentire urla e strazianti lamenti provenire da quel luogo, associati alla Làmia che divorava le sue prede. Col tempo questa minacciosa figura di donna-mostro, iniziò a popolare anche le storie per bambini, divenendo, di fatto, uno spauracchio evocato dalle nutrici per distoglierli dal compiere malefatte. (5)

Caratteristiche ed origine geologica
La grotta della Làmia si apre a 910 m di altitudine s.l.m. sul fianco di uno dei tanti canaloni del Vallone Spedìa (Montebello Ionico), sulla sinistra idrografica della fiumara Valanidi. A prima vista molto simile, quanto a conformazione morfologica generale, alle Grotte di Tremusa nel comune di Scilla, la Grotta della Làmia si distingue da queste ultime per le sue più estese dimensioni. Si è generata a partire da rocce sedimentarie formatesi in ambiente marino in periodi antecedenti al sollevamento tettonico del massiccio aspromontano. La progressiva azione erosiva dell’acqua ne ha plasmato la cavità, scavando in essa cunicoli e tortuosi meandri. Le stesse acque, trasportando a valle sabbie e prodotti di disgregazione della roccia, ne hanno, invece, aggirato e risparmiato le strutture più solide e resistenti, che attualmente si configurano come massicci pilastri o tozze protuberanze pendenti dalla volta della grotta.
Ciò che colpisce di questa grotta è proprio la sua ampiezza (decine di metri, inclusi i cunicoli terminali), insolita per una cavità costituita in prevalenza da arenaria e rocce calcarenitiche. Tipicamente, infatti, le grotte più ampie e profonde sono costituite da compatta roccia calcarea in grado di sostenere il peso della volta sovrastante. In rocce friabili, come quelle arenacee, si generano, invece, cavità di dimensioni molto più contenute e ridotte, dal profilo arrotondato, prive di significative strutture e concrezioni come stalattiti e stalagmiti.
Nel caso della grotta della Làmia, la percolazione di acque calcaree ha, invece, impregnato la roccia di depositi di carbonato di calcio conferendole compattezza, solidità ed una caratteristica patina di colore biancastro.
Alle infiltrazioni di acque ricche in bicarbonato di calcio, che precipita in calcite quando si presentano le condizioni chimico-fisiche ideali, è anche da attribuire la formazione di “micro stalattiti” di lunghezze dell’ordine dei millimetri: si tratta di aggregati di granelli di sabbia, detriti e sedimenti “cementati” dal calcare trasportato dallo stillicidio.

La grotta
La grotta si presenta come un vasto ed intricato labirinto, in cui un alternarsi di spesse colonne, voluminose e tozze stalattiti, anfratti e gallerie disorienta il visitatore. Il panorama è reso ancora più intrigante dal particolare gioco di ombre proiettate sulle bianche pareti rocciose dai raggi solari provenienti dall’ampia ante grotta. Gli ambienti più interni risultano invece completamente oscuri. Sulle sue pareti, tanto quanto sulla volta, fossili di conchiglie “a pettine” (molluschi bivalvi del genere Pecten), alcuni anche molto grandi e ben conservati, testimoniano l’origine marina delle rocce. Oggi la grotta ospita, sempre meno numerose, colonie di pipistrelli. Il suolo terroso si presenta umido per l’intenso stillicidio ed in leggera salita con un dislivello totale di +3.50 metri rispetto alla quota del principale dei tre ingressi. La grotta termina con stretti cunicoli che risultano impraticabili in quanto ostruiti da compatti depositi terrosi, ma che, stando ad alcune non confermate dicerie locali, condurrebbero per vie sotterranee ad altre grotte presenti sul territorio di Motta San Giovanni o, perfino, di Melito Porto Salvo.

Per approfondimenti consultate la mappa delle grotte dell’Aspromonte

NOTE:
(1) Làmia: volta, stanza con soffitto o copertura a volta. Lamiari: languire, desiderare, patire la fame, essere travagliato dalla fame per qualcosa, da cui lamiatu, affamato (G. Rohlfs). È curioso notare che anche il termine lamientu, lamento o sbadiglio (per fame?), a prima vista sembri avere la stessa radice di làmia.
(2)  F. Costabile, Minima Epigraphica et Papyrologica.
(3) Mitologica figura femminile dall’aspetto mostruoso, antropofaga ed infanticida, talvolta assimilata ad un orco, un vampiro, una strega o una creatura dal corpo in parte umano ed in parte animale. Le fonti non sono univoche nella narrazione della sua vicenda e la sua iconografia è molto variegata: presenta, infatti, caratteri fisici comuni ad altre creature del mito come la sirena o il tritone, l’arpia, il licantropo, il drago, la sfinge. Tra le sue più note rappresentazioni, vi sono quella di donna-lupo, dal corpo peloso e dotata di artigli (fig. 13-14), o anche quella di donna dal corpo di serpente o in grado di trasformarsi in rettile, capace di sedurre i giovani con l’intento di divorarli (fig. 15). Risulta, inoltre, che il termine “Lamie” potesse indicare un’ampia categoria di creature mostruose tutte accomunate da caratteristiche come metamorfosi, bestialità, voracità (intesa sia in senso alimentare, che erotico) e soprattutto antropofagia, cannibalismo o vampirismo.
(4) Nel mito e nell’epica, figura femminile di indovina o incantatrice, protagonista anche di storie ambientate in Aspromonte. Una peculiarità, che la accomuna con la Làmia, è rappresentata dal fatto che dimora anch’essa in una caverna, “l’antro della Sibilla”. Leggi la storia della Sibilla
(5) Numerosi racconti e testimonianze locali sono raccolti in La Làmia nei racconti dell’area grecanica (Vittoria Minniti, I quaderni del ramo d’oro online), opera, in cui è riportata una dettagliatissima analisi storico-letteraria della figura della Làmia e della sua evoluzione nel tempo, tanto nella mitologia, quanto nel folklore popolare. Oltre alla Grotta della Làmia, alla contrada Làmia (Fossato) ed ai vicini Campi della Làmia, nella stessa opera sono citati altri luoghi legati alla stessa denominazione, come le contrade Lami o Lamie nel borgo di Bova e Làmia a San Lorenzo e Gallina.

 

Sono Luigi Torino, classe 1996 nato a Reggio Calabria; fisico di formazione, lavoro nell’ambito della consulenza e nel tempo libero amo esplorare la natura incontaminata della Calabria e dell’Aspromonte. Sono attualmente iscritto alla Facoltà di Scienze Forestali di Reggio Calabria.
Mi sono avvicinato alla fotografia macro e di paesaggio nel 2019, dall’anno successivo ho iniziato ad interessarmi alle orchidee selvatiche e alla flora endemica della provincia reggina; al momento mi dedico principalmente alla ricerca e alla catalogazione delle orchidee presenti sul territorio. La mia fotografia strizza un occhio sia all’estetica che alla precisione della tecnica; amo spaziare dai particolari dei soggetti ritratti a foto dall’aspetto più onirico, passando per scatti ambientati e dettagli di paesaggi. Ho iniziato a scattare con attrezzatura Nikon per poi passare al sistema Olympus micro 4/3.
La passione per la natura nasce dal contatto frequente che ho avuto sin da piccolo con l’ambiente e la nostra montagna; questo legame combina il piacere della scoperta e la costante meraviglia per la variegata biodiversità dell’Aspromonte con la volontà di testimoniare le bellezze spontanee con un certo rigore scientifico. Ritengo che la Calabria sia una regione sottovalutata dal punto di vista naturalistico – a volte dai suoi stessi abitanti, ignari dell’inestimabile ricchezza a pochi passi da casa – che merita una giusta indagine non solo per la valorizzazione del suo patrimonio naturale ma soprattutto per porre un focus sulla conservazione di quanto è presente sul territorio.

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Nei primi anni del 1900 in Aspromonte furono progettati e realizzati alcuni impianti idroelettrici da Rodolfo Zehender, ingegnere reggino. La sua prima opera risale al biennio 1906/7 e riguarda la centrale idroelettrica di Bagnara ma importante per Reggio fu quanto realizzò nel 1908 sul Calopinace che fornì la città di luce elettrica.
La questione mi incuriosì e feci delle ricerche, preziosi furono i documenti conservati presso l’Archivio di Stato.
L’acqua della fiumara, in località Cartiera, veniva incanalata e dopo circa un chilometro di percorso giungeva poco sotto S. Domenica. Qui confluiva in una condotta forzata che precipitando per 74 m. metteva in moto le turbine e quindi generava l’elettricità. Ma l’acqua non finiva quì il suo lavoro. Riprendeva a scorrere in un secondo canale che terminava presso Terreti dopo oltre 3 km e precipitava con un salto di ben 272 m. nella centrale di Fallara a Cannavò.
Volevo conoscere i luoghi e quanto restava di quelle opere. Il 29 gennaio del 1995 con alcuni amici scendemmo sino ai ruderi della centrale iniziando una tra le più singolari esplorazioni che ho condotto in Aspromonte. Iniziammo a seguire il canale dove, per fortuna, non scorreva l’acqua.   Nel nostro giovanile entusiasmo eravamo certi che seguendo il canale saremmo giunti agevolmente sino a Terreti. Tralasciamo le muraglie di rovi che dovemmo superare ma il rischio maggiore lo corremmo nei tratti dove il canale era franato anche perché procedendo nel percorso, il dislivello tra noi e la fiumara aumentava sempre più. Ricordo che fummo felici di trovare un vecchio piccone che utilizzammo per scavare un minimo di appoggio nei tratti in frana. Avvicinandosi a Terreti qualche coltivo sovrastava il canale ma soprattutto delle lastre di pietra lo proteggevano dalle frane e quindi il percorso divenne meno problematico.
Ultima sorpresa un tunnel di circa 100 m. sufficientemente alto da poterci camminare quasi eretti. Due targhe di marmo poste all’entrate indicavano la data del 1908: incredibile il lavoro che sarà occorso in quell’epoca per realizzare una simile opera.
Questa la breve cronaca di quell’avventura. Negli anni successivi visitai altre volte quei luoghi fino a quando, nel 2008, fui felice di vedere che l’impianto fu recuperato e le centrali riattivate.
E non fu l’unico. Furono ripristinate anche le centrali idroelettriche di Favazzina e di Vasì.
Caso abbastanza raro di ruderi che tornano a nuova vita: un altro Aspromonte.
Il percorso è comunque molto pericoloso e sconsiglio chiunque di rifarlo.

Accontentavi delle immagini e di uno spettacolare video  di Gino Fonte

di Giuseppe Arcidiaco

Si tratta di imponenti blocchi di arenaria modellati dagli agenti atmosferici, in particolare venti e precipitazioni, che si ergono verticalmente emergendo dal suolo terroso di contrada Crìvini (1) (o Passo di Martino) nel comune di Montebello Ionico, a monte della frazione di Fossato Ionico. Il singolare profilo, a tratti incavato, di alcuni di essi fa perfino suppore l’intervento antropico, ma la natura nel creare quelle che ci sembrano stranezze non ha bisogno dell’uomo.
Uno dei più alti pinnacoli presenta una profonda cavità di forma pressoché cilindrica che lo attraversa longitudinalmente per quasi tutta la sua altezza: un canale profondo e stretto che termina con un fondo chiuso in prossimità della base dello sperone roccioso. Eroso dallo scorrere dei secoli, il blocco di roccia ha finito per spaccarsi in due metà rivelando le pareti interne del pozzo. Queste si presentano scolpite da solchi circolari concentrici che ricordano quasi l’azione di una grossa trivella o il foro lasciato da un carotaggio. L’origine è di certo naturale ma la singolarità di queste sculture colpisce il visitatore.
Un analogo geologico potrebbe essere individuato nelle Marmitte dei Giganti, profonde depressioni circolari talvolta presenti in rocce carsiche, originatesi dall’erosione delle stesse causata dallo scorrimento di acque fluviali o di scioglimento di un ghiacciaio. Le infiltrazioni d’acqua che si incanalano all’interno di una fessura nella roccia o di un crepaccio, possono infatti confluire formando copiose e rapide correnti che, a loro volta, seguendo il profilo della cavità, possono iniziare a vorticare esercitando un intenso lavoro di erosione sulle sue pareti ed un’elevata pressione laterale e sul fondo.
Un simile meccanismo spiegherebbe l’origine del pozzo scavato nel pinnacolo e dei solchi circolari presenti sulle sue pareti interne. Un’iniziale cavità di tenera arenaria potrebbe essere stata, infatti, ampliata ed ulteriormente scavata dall’acqua vorticante al suo interno, la cui azione abrasiva sarebbe stata resa ancora più efficace dalla presenza di sabbia, ghiaia e particolato in sospensione, distaccatosi dalla stessa roccia sedimentaria e trascinato dall’alta velocità del flusso rotante. Restano singolari il fatto che tale cavità si sia sviluppata verticalmente lungo l’asse di uno sperone roccioso e la sua simmetria quasi perfettamente cilindrica. Va necessariamente precisato, però, che, nel corso di milioni di anni, fenomeni sismici e processi di orogenesi in generale possono avere cambiato le condizioni geologiche del sito e la stessa posizione ed orientazione del blocco di arenaria, rispetto al momento in cui il canale è stato scavato dall’acqua.
Al di là delle ipotesi sulle sue origini, i pinnacoli di Crìvini restano un luogo affascinante ed evocativo che arricchisce ulteriormente quel variegato mosaico di ambienti e paesaggi che è l’Aspromonte.

1) Su Google Maps la contrada è indicata come Pitea ma i fossatesi, da noi consultati, attestano il toponimo “Crìvini”. Tant’è che è ancora vivo il modo di dire, attribuito a una persona di scarsa intelligenza: “si drittu comu a strada i Crìvini”. La contrada è infatti attraversata da una strada tortuosa.

etimologia forse da crivo, setaccio per la forma cilindrica di alcune rocce

Itinerario descritto nel libro Porpàtima

Si ringraziano Fabio Macheda, Mimmo Pellicanò e per alcune foto Alfonso Morabito

di Joseph Moricca

Cronistoria.
Sul finire degli anni 60 del secolo scorso nacque l’idea di realizzare un invaso artificiale in Aspromonte. La previsione di una crescita considerevole della popolazione lungo la fascia costiera (che in realtà si rivelò errata) spinse i politici di allora a muovere i primi passi per la sua realizzazione i cui lavori iniziarono soltanto nel 1986. Il torrentello Menta, di cui nessuno in città aveva mai sentito parlare, improvvisamente balzò agli onori della cronaca essendo stato scelto per ospitare nel proprio bacino imbrifero il futuro lago artificiale. La scelta fu giustificata non tanto dalla “portata” del torrente (piuttosto esigua) quanto dalla posizione geografica, dalla notevole ampiezza e impermeabilità del suo bacino e dalla particolare natura e morfologia delle rocce in prossimità del futuro sbarramento (spalle e piano d’imposta).

Il progetto originario prevedeva inoltre di arricchire il “serbatoio” del Menta prelevando acqua forzatamente da altri due piccoli invasi da realizzare sui torrenti Ferraina ed Amendolea, situati entrambi a circa 100 metri più in basso rispetto all’invaso principale.
Notevoli furono le critiche sollevate in quel periodo da associazioni ambientaliste nazionali quali WWF, Legambiente, Lipu e locali come “Gente in Aspromonte”, oltreché da personaggi autorevoli come Fulco Pratesi, Franco Tassi e Antonio Cederna.
La costruzione della diga e delle opere connesse avrebbe comportato infatti lo stravolgimento di una delle aree tra le più rappresentative di flora e fauna aspromontane e la conseguente inevitabile compromissione del suo fragile ecosistema.

La mobilitazione degli ambientalisti produsse un paio di buoni risultati: intanto il ridimensionamento del progetto originario. Fu infatti abbandonata l’idea della costruzione dei due invasi minori (anche perché il loro contributo sarebbe stato di appena 2 milioni di metri cubi a fronte dei 18 già previsti per l’invaso principale) evitando così di devastare tanta altra parte di territorio. In secondo luogo, le proteste ebbero come conseguenza la riqualificazione “attenta” delle aree di cantiere dismesse, tant’è che oggi l’impatto visivo dell’opera è sufficientemente accettabile. Le ferite inferte, almeno in apparenza, appaiono ricucite e il contesto non sembra del tutto compromesso.

 

Le vicende recenti.
Nel 2015, dopo quasi trent’anni, la diga è stata finalmente ultimata. Il corpo dello sbarramento, alto 90 metri, è costituito da pietrame costipato (rockfill) reso impermeabile dal paramento di monte realizzato in materiale bituminoso. Il lago ha una estensione di circa 14 km quadrati con un potenziale volume d’acqua disponibile pari a 18 milioni di metri cubi.
Quest’opera è costata finora alla comunità qualcosa come 230 milioni di euro.
Il lago, oggi, ha buone probabilità di diventare attrattivo per aspetti turistico-sportivi. Se fossero regolamentate e promosse vi si potrebbero praticare pesca e canoa, oltreché sci di fondo lungo la strada perimetrale spesso ricoperta in inverno da abbondanti nevicate. Già da tempo, la zona è frequentata dagli amanti del trekking che, oltre a percorrere l’anello che circonda il lago, raggiungono più a valle le affascinanti e notorie cascate Maesano le cui acque alimentano il corso della fiumara Amendolea.

Dal 2018 l’acquedotto del Menta è ufficialmente in attività ma dei mille e più litri al secondo che dovrebbe fornire a regime, ad essere ottimisti, oggi, siamo al 60% della portata di progetto, senza tenere conto delle ancora numerose perdite lungo il tragitto causate dalla vetustà di gran parte delle condotte secondarie e dall’annosa questione degli allacci abusivi.
Non è stata attivata ancora la centrale idroelettrica prevista in località San Salvatore che produrrebbe circa 14 megawatt di potenza (il fabbisogno di energia elettrica per circa 15.000 famiglie).
È invece entrato in funzione il nuovo ed importante impianto di potabilizzazione realizzato per garantire il più alto livello possibile di purezza dell’acqua sotto il profilo chimico-batteriologico
Utile, infine la presenza di personale a sorveglianza dell’infrastruttura. I custodi, turnandosi, garantiscono un presidio h24 della diga, più volte rivelatosi vitale nel soccorrere escursionisti e turisti in difficoltà.

 

Conclusioni.
Reggio ha un’atavica sete d’acqua. Ciò in parte ha giustificato la realizzazione di questa controversa ed imponente opera idraulica. Va detto però che il motivo della storica carenza d’acqua è da ricercare non solo nella citata condizione di degrado della rete di distribuzione ma anche nei tanti errori commessi in passato tra cui soprattutto la scellerata cementificazione della fascia costiera senza risparmiare gli alvei e gli argini delle fiumare, fonte di approvvigionamento primaria delle falde acquifere presenti nel sottosuolo del comprensorio reggino. In breve tempo, senza il dovuto apporto, il livello di falda è sceso ovunque sotto quello della linea di costa consentendo all’acqua salmastra di infiltrarsi ed inquinare in modo irreversibile i serbatoi naturali di acqua sotterranea.

Ma oramai il danno è fatto e dunque questa diga, per i cittadini di Reggio e zone limitrofe, rappresenta oggi l’unica speranza di poter utilizzare in sicurezza l’acqua che sgorga dai rubinetti di casa. Tra l’altro, gradualmente si stanno dismettendo i pozzi e i dissalatori con un notevole risparmio in termini di energia e di risorse.
Sembra che la società che gestisce l’impianto (Sorical) si stia impegnando seriamente per portare a regime il funzionamento nella sua interezza.

Rimane essenziale che la cittadinanza vigili e faccia sentire più spesso la propria voce denunciando eventuali mancanze e disservizi. Siamo noi fruitori ad avere il diritto di conoscere costantemente lo stato dell’arte dato che paghiamo a caro prezzo un bene che lo Stato deve garantire ad ogni cittadino.
Ricordiamoci che questa risorsa è l’ennesima che l’Aspromonte rende disponibile per noi cittadini inurbati.

Si ringrazia per le notizie Stefano Sofi

 

Giuseppe Vottari è un fotografo che inizia a muovere i suoi primi passi nel mondo della fotografia nel 2013, studiandola in modo autonomo da autodidatta. Con il tempo, ha ampliato il suo campo di interesse, specializzandosi principalmente nella fotografia di paesaggio, ma anche in quella astratta, minimalista e di ritratto.

Oltre alla sua carriera fotografica, Giuseppe ha intrapreso anche un percorso accademico che lo ha visto laurearsi prima in Scienze Turistiche e successivamente in Valorizzazione dei Sistemi Turistico-Culturali presso l’Università della Calabria.

La passione per la fotografia è profondamente legata ad un’altra passione quella per la montagna. Un legame che nasce fin da piccolo, grazie a suo nonno, grande conoscitore dell’Aspromonte, che lo portava spesso in montagna. Successivamente, la stessa passione è stata condivisa con il padre e lo zio, creando così un legame familiare molto forte con quei luoghi. L’Aspromonte è per Giuseppe un ambiente familiare, ma anche un modo per “solcare i passi” e riscoprire in qualche modo coloro che sono venuti prima di lui. Ogni volta che può, sia da solo che in compagnia qualche amico, Giuseppe sale sulle vette di questa montagna per scattare fotografie o semplicemente per godersi una passeggiata.

Giuseppe considera l’Aspromonte una montagna maestosa, trascendentale, a tratti mistica e inaccessibile, ma che riesce comunque a offrirgli spunti di riflessione, tanto personali quanto fotografici, un luogo dove poter trovare risposte al riparo dai frenetici ritmi della società.

Suggerisco un’escursione adatta alla stagione invernale perché breve e senza copertura arborea. La meta sono i ruderi di una chiesetta poco conosciuta e intitolata a San Niceto, ubicata nel comune di Bova Marina. L’accesso non è agevole trovandosi su di una collina scoscesa. Grazie alla sensibilità del proprietario dell’area, avv. Amilcare Mollica, fratello del compianto prof. Edoardo, sono stati realizzati alcuni scalini e dei picchetti in ferro.

Vi sono stato la prima volta nel 1985 guidato dal prof Domenico Minuto e tornandoci di recente ho dovuto constatare lo stato precario in cui versa il monumento, con il lato ovest che sta per franare nel sottostante vallone. Andate a vederlo prima che scompaia!

Il sito è stato studiato sia per la chiesa datata al X secolo che per gli insediamenti preistorici tra il 1100 e il 900 a.C.

Della chiesetta e di come raggiungerla trovate qui dettagliata descrizione.

Del sito preistorico qui la relazione degli scavi condotti dal prof. John Robb.

Ai piedi della collina ove trovasi la chiesetta, immerso in un florido agrumeto, vi è l’ agriturismo Rio Rosa dell’ospitale avv. Mollica.

 

di Giuseppe Arcidiaco

A circa 2 km da Gambarie, al confine tra i territori di Reggio Calabria e di Santo Stefano d’Aspromonte, si trova il rudere di un edificio, riportato sulle carte topografiche dell’IGMI come Grotta di San Silvestro. Tale denominazione è, però, impropria in quanto non si tratta di una cavità naturale, bensì del catino absidale di quello che presumibilmente era stato un luogo di culto di epoca bizantino-normanna (databile attorno al XII secolo) collocato sull’antica via che collegava la marina di Gallico al profondo Aspromonte ed al santuario di Polsi.
Il manufatto sorge nella zona oggi denominata due fiumare, in quanto vi confluiscono i torrenti Chalica (anche detto Troia, asta principale del Gallico) e Mitta. Nessuna testimonianza o documentazione è stata, al momento, trovata riguardo la sua funzione, che rimarrà una questione aperta finché un’eventuale campagna di scavi archeologici non porterà alla luce le restanti strutture murarie, attualmente interrate. Sull’edificio, incassato alle pendici del monte Basilicò, aleggiano diverse leggende legate al Santo, il quale si sarebbe ritirato in meditazione in questi luoghi dell’Aspromonte oppure ivi rifugiato per sfuggire alle persecuzioni. Per tali ragioni gli sarebbe stata dedicata una chiesa. Tutto ciò è frutto della tradizione popolare e privo di fondamento storico, sebbene nei secoli l’Aspromonte sia stato la dimora di numerosi eremiti basiliani dediti al lavoro, alla preghiera ed alla contemplazione. La spiritualità orientale di rito greco, all’epoca diffusa tanto sulle coste ioniche della Calabria quanto nell’entroterra aspromontano, non era caratterizzata da grandi cenobi ordinati secondo regole monastiche scritte e ben definite; era, invece, molto spontanea e praticata da singoli eremiti ed asceti che trovavano riparo in romitori isolati tra le montagne, lontani dai centri abitati. Tesi alternative riguardo la funzione del rudere suggeriscono, infatti, l’iniziale presenza di una grotta naturale, rifugio del Santo o, più probabilmente, di qualche altro eremita, a cui sono state successivamente aggiunte strutture murarie per enfatizzarla, glorificarla o magari proteggerla dalle piene dei torrenti.

Papa Silvestro I, pontefice dal 314 d.C. al 31 dicembre 335 d.C. e venerato come santo dalla Chiesa Cattolica (si celebra l’ultimo dell’anno, giorno della ricorrenza della sua morte), visse ai tempi dell’imperatore Costantino che, stando alla leggenda, guarì dalla lebbra suscitandone la conversione al cristianesimo. Ma, più che a San Silvestro, la denominazione del rudere potrebbe essere legata al termine latino silva, che sta per selva o bosco; a tal proposito ricordiamo la Chiesa di Santa Maria del Bosco sita all’interno del centro abitato della vicina Podargoni. A favore dell’ipotesi dei resti di una chiesa bizantina, sono in parte visibili, all’interno dell’abside, due piccole nicchie simmetriche di forma rettangolare riempite di sedimenti, presumibilmente con le funzioni di pròthesis e diakonikòn. Nelle chiese di rito orientale, la pròthesis era la zona a sinistra del presbiterio (bema), dove venivano conservate le offerte della mensa eucaristica, mentre il diakonikòn, a destra, era destinato ai diaconi, alla raccolta delle offerte dei fedeli ed al deposito delle suppellettili sacre; entrambe le strutture erano generalmente dotate di abside. Nel rudere non è, invece, visibile il piano di calpestio perché completamente interrato. Inoltre, era consuetudine che l’altare fosse rivolto ad oriente; in questo caso, l’arco absidale, lievemente ogivale, risulta orientato ad est-nord-est (70°). I materiali utilizzati sono pietra e pomice lavica.

La presenza di una chiesa immersa nella boscaglia e lontana dai centri abitati è la testimonianza di una montagna profondamente antropizzata sia per l’industria boschiva, che reggeva l’economia di interi comuni, sia per i continui pellegrinaggi verso il santuario di Polsi da tutta la Calabria e dalla Sicilia. Risale al 1152 infatti un episodio narrato nella biografia di San Lorenzo di Frazzanò (Messina) che trovandosi a Santa Domenica di Gallico (RC) si recò a Polsi.
L’alveo del Gallico, ben diverso dall’attuale, era appunto tra le principali vie di comunicazione e di scambio, in particolare per chi attraversava lo Stretto per raggiungere l’Aspromonte.
Ora avvolto da una vegetazione impenetrabile nel passato il sottobosco era invece utilizzato per gli usi civici e persino il greto del fiume veniva coltivato, seppur stagionalmente, con le nasite, “piccole isole”.

La Grotta di San Silvestro può essere raggiunta da diversi punti (Podargoni, Mannoli, Santo Stefano, Basilicò) ma resi disagevoli per l’abbandono dei luoghi e il ritorno prepotente della natura che sta riprendendo gli spazi una volta curati dall’uomo. L’itinerario che suggeriamo ha inizio da Santo Stefano, evidente per un tabellone che lo illustra e posto sulla SP7 nei pressi della Fondazione Exodus.
Per la descrizione del percorso rimandiamo a pag. 237 del libro Passi, natura e storia in Aspromonte dal quale sono tratte le informazioni tecniche e costruttive relative al rudere.
Un luogo celato da una fitta vegetazione dove un antico manufatto, seppur misterioso, ci parla della ricchezza dell’Aspromonte.

Approfondimenti
L’episodio di San Lorenzo di Frazzanò è narrato nel libro Montalto, cima dell’Aspromonte
I dati dendrometrici dell’eucalipto sono riportati, insieme a molti altri alberi, nella Mappa degli alberi monumentali

Note: non esistendo immagini dell’ipotetica chiesa di San Silvestro, tra le figure si riportano le rappresentazioni di pianta, prospetti e sezione della Cattolica di Stilo, massimo esempio di architettura medio-bizantina calabrese, tratte da Charles A. Cummings, A history of architecture in Italy from the time of Constantine to the dawn of the Renaissance, 1901.
Si ringrazia Stefano De Luca

Frequento le nostre montagne sin dal 1980 con una certa continuità. Tra i numerosi interessi che ho avuto negli anni quello fotografico mi ha permesso di coniugare le due passioni ovvero trekking e fotografia.
Ho avuto modo di partecipare alle prime e principali organizzazioni associative di trekking in Aspromonte come Gente in Aspromonte, il G.E.A., il C.A.I. e le minori come Gruppo Archeologico dell’Amendolea, Grecanica Trekking e Kalabria Experience.
Un’altra passione che mi accompagna sin da quando ero adolescente è la curiosità prima e l’amore in seguito, per l’Africa. Ovviamente è molto generico parlare di Africa per le numerosissime etnie, culture e paesaggi che la compongono tuttavia dei numerosi viaggi fatti da nord a sud non ce n’è uno che mi abbia deluso.
Nel 2005 inizio la mia esperienza volontariato occupandomi di progetti realizzati in Niger per conto dell’associazione Bambini nel Deserto, in quel periodo pubblico un libro fotografico sui Tuareg del Niger.
Nel 2008 insieme ad altri amici fondiamo l’Associazione Gente d’Africa OdV e da allora mi occupo di seguire i progetti in Niger, Burkina Faso e Benin.
Fotografo da sempre con attrezzatura Nikon passando dalla Nikon FM (totalmente manuale e meccanica) alla ultima reflex Nikon D850.
I primi scatti sono stati principalmente realizzati in pellicola diapositiva ma una volta scoperto il digitale (nel 2005) ho iniziato a fotografare con la Nikon D70 e da allora devo ammettere di non essere mai più tornato indietro.
Purtroppo, il lavoro da fare per digitalizzare le diapositive dei miei primi scatti è impegnativo ma spero di riuscirvi.
Le immagini che vi presento sono monocromatiche perché attualmente mi sento più vicino a questa forma espressiva. Spero tanto possano trasmettervi curiosità e, perché no, anche qualche emozione.