A via da Prena o della Figurella, è quella sulla quale, come un immenso imbuto, confluiscono da secoli i pellegrini provenienti dalla Piana e in generale dal versante tirrenico dell’Aspromonte e diretti al santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte.
È quindi naturale sia punteggiato di segni che parlano dell’antico e intenso rapporto tra la gente e il luogo sacro.
A cominciare dal Serro della Croce dove i pellegrini giungono in vista del Santuario, fra le grida e gli spari euforici, si scaricano di alcune pietre che recavano sulle spalle se pesanti o in mano se leggere e le ammonticchiano in un punto nel quale, con gli anni, il monticello diviene sempre più grande. Verrebbe da pensare che il deposito di simili pietre … sia diventato imponente, ma non è così. Infatti, ad ogni necessità del santuario, i mulattieri le hanno prelevate costantemente per adibirle alle opere murarie che periodicamente si effettuano nel medesimo Santuario. (1)

Dal Serro della Croce il percorso discende in infiniti tornanti. La pista, nel tentativo di consentire il transito agli automezzi, ha quasi cancellato l’antico sentiero e accresciuto la franosità del versante. Per tal motivo la fontana della Prena, che ha dato il nome al percorso, è ormai relegata in un diverticolo posto in disparte che solo chi conosce va a visitare.

C’è da percorrere l’ultimo tratto di strada, il più ripido. Praticamente dovevo scendere da quota 1400 a quota 750 per un viottolo scavato nel dirupo e che le carte segnano con una serpentina. Ogni carovana seguiva una propria pista, a prescindere da quella esistente, saltando da un masso all’altro. Le donne portavano sulla testa in ampi canestri a mo’ di culle i bambini, i ciechi penzolavano dagli asini, così dicasi dei paralitici, degli storpi, dei malati. Erano tutti sorretti dalla fede – quella che fa muovere le montagne -, ed erano sicuri di ottenere a Polsi quello che desideravano, anche le cose più assurde. Alla sorgente detta della “Pregna”, c’era gente che si dissetava. (2)

La leggenda narra di una giovane donna incinta che, spinta dalla fede, intraprese il lungo pellegrinaggio verso il Santuario della Madonna di Polsi. Durante il cammino, il caldo e la fatica la indebolirono, e presto si ritrovò affranta e assetata, temendo di non riuscire a raggiungere la meta. In preda alla disperazione e alla stanchezza, si rivolse alla Madonna di Polsi, implorando aiuto e chiedendo un po’ d’acqua per dissetarsi e trovare la forza di proseguire.
La Madonna, mossa a compassione, esaudì la sua preghiera. Miracolosamente, apparve una sorgente d’acqua cristallina proprio accanto alla donna. Riconoscente e commossa, la pellegrina bevve e, dissetandosi, riprese le forze.

Da quel giorno, il luogo e la via presero il nome di via della Prena, in ricordo della grazia ricevuta dalla Madonna e della fede della giovane donna, che fu ricompensata con la forza necessaria per concludere il suo pellegrinaggio.
E fino a quando la fontana era sul sentiero che percorrevano i pellegrini, essi si fermano e bevono devotamente all’acqua che chiamano “disïata”. Bevendo i pellegrini dilavano le ultime scorie del mondo, di peccato che avevano portato con sé, di cui si sono in gran parte liberati gettando le pietre penitenziali sul solito monticello. La purificazione sarà completata nel Santuario, ai piedi della Vergine, dando l’offerta votiva, confessandosi e comunicandosi. (1)

E infine, a metà della discesa la Pietra della Sedia. Essa è un gran sasso, chiamato la sede della Vergine; attaccata al detto sasso vi è una nicchietta di fabbrica, con dentro l’immagine di Maria Santissima col suo Bambino, la Croce e Toro scolpite in pietra, e sopra detta nicchietta una croce. Il racconto del trasporto della statua lapidea della Madonna di Polsi ci informa che la Vergine, già ritta in piedi nel suo simulacro, allorchè giunse a tale masso, si sedette – quasi alla stessa guisa di una delle tante pellegrine stanche del fatidico viaggio – acquistando quella positura che tuttora mantiene. (1)
Dell’evento conserva memoria anche uno dei canti devozionali:

Quandu arrivaru a mmenza a la ‘nchianata
la bbella sedia sua era di petra;
e cu passa di là ca la saluta,
Maria di la Muntagna è nominata.

Quando arrivarono a metà della salita
la bella sedia sua era di pietra;
e chi passa di là che la saluta
Maria della Montagna è nominata.

In parte insoluta è l’iscrizione su due righe presente alla Pietra della Sedia:
nella riga superiore P.C.Pax Christi ?
in quella inferiore M. P. A. D. 18..9 = Monasterium Popsi Anno Domini 18…9

Giungendo a tempi più recenti Nel 1970, il Superiore Pelle, per evitare che andasse irrimediabilmente perduto, raccolse il bassorilievo che ancora si conservava sulla Sedia, … e lo incluse nella ricostruzione della fontana della Prena. (1)
Pietre, acque, sentieri che parlano a chi sa ascoltare l’altro Aspromonte.

  • “Storia, tradizioni e leggende a Polsi d’Aspromonte” Salvatore Gemelli 1992
  • “Il pane della Sibilla” Domenico Zappone 2011

Trovate il tracciato della via della prena nella mappa dei sentieri per Polsi
Altro materiale (foto, testi, documenti) su Polsi nel sito www.laltroaspromonte.it

Ringrazio per foto e notizie Enzo Galluccio, Maria Pia Mazzitelli, Domenico Minuto, Pino Perrone e Sebastiano Romeo della Fondazione Corrado Alvaro

Un gustoso racconto dai toni eroici, tipico dell’epoca. Tratto da Teofilo Maione, A.S.C.I. Scoutismo cattolico a Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni.
Ecco una mia sintesi con tappe e tempi ma vi invito a leggere l’intera cronaca che riporto nelle immagini delle pagine del libro.
Partiti in 22 da Reggio Calabria alle ore 5 del 28 settembre 1915 sotto la direzione dell’ing. Andreoni giungono in treno a Bagnara. Al loro arrivo trovano il prof. Valbusa andatovi in precedenza per i preparativi, ed insieme ad esso ad attenderli il Consigliere comunale sig. De Leonardis e molti studenti dell’Istituto Tecnico e Liceo colà in vacanza. Vengono quindi ricevuti al Palazzo Comunale dal gentilissimo dott. Pignataro che offre prodigalmente rinfreschi e dolci. Visitata la bella sede comunale e scambiati auguri e ringraziamenti partono alle ore 8,30 per la montagna.
Transitando da Covala, Passo della Signora, Passo della Tavola alle ore 15 arrivano alla segheria De Leo in Aspromonte dove “li aveva preceduti il Capo squadra Ferrari che già aveva provvisto a mettere a fuoco la carne che fumava in modo consolante in una grande marmitta”.
Prima della cena però salgono al monumento di Garibaldi. Pernottamento alla meglio nella segheria.
“Al mattino del 29 prima di giorno erano tutti lestamente in piedi”. Si dividono in due gruppi. I più giovani alle 5.30, “dopo sonori urrà e squilli di tromba senza fermate alla 8.30” rientrano a Bagnara.
In 5 prendono la via della montagna e attraverso “la cresta di Monte Petrona e seguendo sempre il displuvio per il Monte Cuddeo” (ndr Caddeo) giungono alla vetta del Montalto per le 13.
“Ivi fecero una lunga e beata sosta godendo della magnificenza del sole e dell’immenso panorama che di lassù si ha sul Tirreno e sullo Jonio”. Dai Piani dei Reggitani sono a Polsi alle ore 19. Nonostante la grande affluenza di pellegrini il Superiore don Giosofatto Mittiga trova loro alloggio.
Al mattino del 30 partono “alla volta di Bovalino discendendo in tutta la sua lunghezza la Vallata della Fiumara Bonamico”. Il mattino del 31, col treno Diretto delle 6.25 erano tutti di ritorno a Reggio.

Il racconto pubblicato da Maione è apparso sulla rivista del CNGEI del 1915 e sul Corriere di Calabria diretto da Orazio Cipriani del 9 settembre 1915. Si ringrazia per i documenti forniti il giornalista dr. Filippo Praticò.
Altre storie sullo scoutismo a Reggio Calabria nel fascismo

Laureato all’Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze e in Scienze Politiche (indirizzo Internazionale) all’Università di Firenze, risiede attualmente a Catanzaro e fonda nel 1995 I Viaggi di Zefiro, Tour Operator specializzato in viaggi culturali ed esperienziali in Calabria, Italia e all’estero.
Appassionato di viaggi, di fotografia da reportage, di escursionismo, è un profondo conoscitore della Calabria e dei suoi angoli più remoti, della sua gente e delle sue tradizioni, sempre alla ricerca del genius loci dei territori. È un convinto ambasciatore della sua terra e ama raccontarla per immagini, attraversandola in lungo e in largo, a piedi, in auto o con i tour che organizza, sempre alla scoperta di prospettive inconsuete e nuove storie da ascoltare al di là dei luoghi comuni.
La sua idea di Calabria: una terra ’non ordinaria’, del non-finito e dell’infinito, del possibile e dell’impossibile, di una bellezza selvatica che lascia senza fiato.
Si avvicina ai social 10 anni fa, per curiosità e divertimento, e scopre le grandi potenzialità di comunicazione e scambio culturale che essi offrono oltre che l’opportunità di intercettare tendenze, personaggi, eventi e storie. I canali che predilige sono Facebook e Instagram (con lo pseudonimo @impattozero), dove pubblica frequentemente i suoi racconti fotografici e condivide suggestioni e la grande passione per la sua terra di origine.

Erano gli anni ’90 del secolo scorso e avevo creato la cooperativa Nuove Frontiere, prima struttura nel sud Italia che offriva servizi nel turismo naturalistico trasformando così la mia passione in attività professionale. Questo in una montagna, l’Aspromonte, che da problema stava divenendo risorsa.
Erano ormai diverse le sezioni CAI del nord Italia e anche qualche gruppo di tedeschi che camminavano in Aspromonte.
I pernottamenti, tuttavia erano in tenda, eccetto il primo e l’ultimo giorno, o al meglio in caselli forestali non attrezzati per l’ospitalità. Insomma, il comfort era minimo.
Il salto di qualità si ebbe ispirandoci a Edward Lear, un viaggiatore inglese che peregrinò per l’Aspromonte nel 1847 lasciando splendidi acquarelli e un gustoso diario dove scrive:
“Il sistema di viaggio che io e il mio compagno adottammo … era il più semplice ed anche il meno costoso: abbiamo; infatti, compiuto l’intero viaggio a piedi (…) in Calabria, un asino per caricarvi quel po’ di bagaglio che avevamo portato con noi, ed una guida (…) Poiché in quelle province non ci sono alberghi (…) il viaggiatore deve sempre contare sull’ospitalità di qualche famiglia, in ogni città che visita”.
La sua formula fu il nostro obiettivo. La scintilla che avviò il coinvolgimento degli abitanti dei paesi scoccò per l’incontro casuale tra un mio gruppo di escursionisti e i giovani della neonata cooperativa San Leo di Bova. Questi raccontano: “Il primo gruppo di persone che abbiamo avuto veniva da Roghudi guidati da Alfonso Picone Chiodo di Nuove Frontiere e ci chiese da mangiare perché c’era stato un malinteso con il pastore con il quale avevano l’accordo” “Avevamo un negozietto per vendere frutta e verdura. Alfonso ci chiese: se non c’è un ristorante, almeno potete farci un’insalata? Potete fare altro? E da lì poi è iniziata l’interazione”.
L’idea andava però strutturata. Nel 1993 ci venne in aiuto il WWF Italia che incaricò la società Eco&Eco di elaborare il progetto “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”. Prendendo spunto dalla formula adottata da Lear bisognava creare un’offerta per il turismo escursionistico, caratterizzata dall’uso delle abitazioni nei paesi come strutture di accoglienza per il vitto e l’alloggio dei visitatori. Il progetto per realizzarsi necessitava non tanto di investimenti, quanto di capacità, motivazioni, disponibilità all’iniziativa, spirito di collaborazione. Un progetto che fu di stimolo per la società civile della zona e strumento di promozione delle energie sociali presenti in quei paesi dell’Aspromonte. In particolare, dimostrò come una iniziativa di sviluppo compatibile possa fondarsi sulle risorse ambientali e umane presenti nell’area, opportunamente organizzate e coordinate.
In questo processo ci fu di aiuto il programma europeo di animazione CADISPA, (Conservation And Development In Sparsely Populated Areas) grazie al quale coinvolgemmo la gente dei paesi e per prime le donne. Recuperarono e riadattarono parte dell’inutilizzato patrimonio abitativo ma soprattutto aprirono le loro case al turista che divenne ospite offrendogli un’esperienza coinvolgente a contatto con la cultura e le tradizioni delle popolazioni aspromontane. E fu anche importante per quanti vennero coinvolti che acquistarono dignità e consapevolezza del valore della propria cultura, sino allora negletta.
Col Sentiero dell’Inglese avevamo inventato l’Ospitalità Diffusa.
Il Cammino è lungo circa 110 km, suddiviso in 6 tappe giornaliere immerse nella macchia mediterranea punteggiata da suggestivi scorci panoramici sul mar Ionio e le caratteristiche fiumare. Attraversa i paesi di Pentidattilo, Bagaladi, Amendolea di Condofuri, Bova, Palizzi, Pietrapennata e Staiti con singolari impianti urbanistici e pregevoli monumenti, ricchi di storia e tradizioni. Ma nonostante tali interessi la principale caratteristica del Sentiero dell’Inglese non è l’ambiente ma la gente. In un mercato turistico dove le offerte proposte sono spesso avulse dal territorio che si percorre, il Sentiero dell’Inglese coinvolge direttamente le popolazioni locali.

Ma non era finita lì. Nel 2019 il Cammino ha conosciuto una nuova rinascita grazie all’impegno congiunto di Naturaliter, che ha gestito e potenziato l’eredità di Nuove Frontiere, e Compagnia dei Cammini, che hanno lavorato per ridisegnare il percorso, aggiornare la segnaletica e offrire nuovi servizi ai viaggiatori. Da allora, il Sentiero dell’Inglese è divenuto uno dei cammini di maggior successo del meridione d’Italia ospitando migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo con decine di guide che accompagnano ed anche escursionisti che si muovono autonomamente. Ha quindi stimolato il territorio nella nascita di piccole realtà imprenditoriali, rifugi, agriturismi, ricettività, ristorantini. Un considerevole impatto economico che ha consentito a diversi giovani di rimanere a lavorare nella propria terra e dare una speranza al futuro di alcuni paesi dell’interno.
Sentiero dell’Inglese: un cammino lungo trent’anni.

Approfondimenti.
Trovate descrizione delle tappe, alloggi, mappa escursionistica e altre info nel
sito ufficiale del Sentiero dell’Inglese

Una guida cartacea è stata realizzata da Aspromonte Lab
https://aspromontelab.bigcartel.com/product/asproguida-il-sentiero-dell-inglese

Un articolo del 1995 sulla Rivista della Montagna
Progetto società Eco&Eco “Ospitalità diffusa in Aspromonte orientale”

Edward Lear: biografia, viaggio in Aspromonte e disegni in https://www.laltroaspromonte.it/storie/edward-lear-diario-di-un-viaggio-a-piedi/

La Calabria del XIX secolo ospitò numerosi viaggiatori stranieri attratti dal fascino per il suo passato magnogreco e dal mito romantico del brigantaggio; nonostante ciò, molte zone del meridione calabrese rimasero a lungo inesplorate ed ignote a livello europeo. Una delle ragioni principali che mosse intellettuali e artisti del tempo ad intraprendere il viaggio verso l’estrema punta dell’Italia peninsulare – all’epoca denominata “Calabria Ulteriore Prima” – fu, dunque, la volontà di conoscerne luoghi, tradizioni, costumi ed opere d’arte per loro inediti. Tra i più celebri si deve citare l’inglese Edward Lear (Highgate, Londra 1812 – Sanremo 1888), illustratore, artista, musicista e scrittore vittoriano, autore di raccolte di numerosi diari di viaggio, ricordato per il suo talento naturale per il disegno. La sua arte fu apprezzata dalla famiglia reale inglese tanto che in alcune occasioni insegnò disegno alla regina Vittoria.
Compì viaggi in diverse regioni per l’epoca considerate esotiche come Grecia, Albania, Isole del Mar Jonio e Corsica pubblicando diari arricchiti da splendide illustrazioni.
Lear è ricordato anche per la sua vasta produzione di limerick (versetti umoristici “nonsense”), raccolti nell’opera “A Book of Nonsense” (1846) e per i suoi scritti di botanica ed alfabeti “nonsense” che nel 1870 riunì nel libro “Nonsense Songs, Stories, Botany and Alphabets”. Come pittore naturalista pubblicò una delle sue più belle opere zoologiche illustrate, dedicata ai pappagalli: “Illustrations of the family of Psittacidae or Parrots”.
Verso la fine degli anni ‘30 del 1800 si trasferì a Roma e, da lì, cominciò a viaggiare per l’Italia visitando, negli anni successivi, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise. Nel 1847 dalla Sicilia raggiunse Reggio Calabria e ne visitò la provincia: una spedizione durata dal 25 luglio al 5 settembre, che lo condusse, insieme all’amico John Proby, sotto la guida locale di Ciccio e del suo asino, da una costa calabra all’altra attraverso i sentieri dell’Aspromonte. Un’esperienza che lo colpì molto per la scoperta di luoghi carichi di storia, per i villaggi siti in luoghi quasi inaccessibili, per i panorami così diversi da quelli anglosassoni. Le sue celebri memorie, “Journals of a landscape painter in Southern Calabria” pubblicate nel 1852 a Londra e tradotte in italiano nel “Diario di un viaggio a piedi”, rappresentano forse il primo resoconto illustrato di un’esplorazione della provincia di Reggio Calabria, un ritratto a tutto tondo di questa terra e dell’indole dei suoi abitanti.
Malgrado la fama europea di regione arretrata, aspra e pericolosa, Lear rimase colpito dalla cordialità ed ospitalità dei calabresi, ereditata dalle civiltà classiche del passato e, pertanto, considerata sacra. Il viaggio, ad anello, iniziò e si concluse a Reggio Calabria attraversando borghi grecofoni, colline, grandi fiumare, maestosi uliveti secolari ed agrumeti.
Nella sua opera Lear restituisce con efficace realismo paesaggi di grande suggestione, ritratti con ricchezza di dettagli in incisioni basate su schizzi o acquerelli realizzati durante il viaggio e racconta scene di vita di una Calabria immersa nel contesto storico del Risorgimento. Le insurrezioni che presto sarebbero sfociate nei moti rivoluzionari che interessarono il Regno di Napoli nel 1847 costrinsero Lear ad interrompere il viaggio, impedendogli di visitare le restanti province calabre. Ci ha lasciato però il ritratto di un altro Aspromonte.
Alcuni editori hanno stampato il suo “Diario di un viaggio a piedi” e diverse opere sono state curate dal saggista Raffaele Gaetano, massimo esperto di Lear. Dalla sua opera “Per la Calabria selvaggia” del 2022 per Laruffa Editore sono tratti molti dei disegni pubblicati nel sito.

Approfondimenti
Interessante confronto tra alcuni disegni di Lear e lo stato attuale dei luoghi
Saggio sull’opera di Lear a cura della prof. Francesca Paolino

In tempi recenti il viaggio di Lear, ribattezzato Il Sentiero dell’Inglese, è stato riscoperto e valorizzato divenendo il trekking più frequentato dell’Aspromonte.
Ma questa è un’altra storia che potete leggere in https://www.laltroaspromonte.it/storie/il-lungo-cammino-del-sentiero-dellinglese/

No, non è la sorella del coniuge. Per i non calabresi spieghiamo che cugnata, da cugno=cuneo, è l’accetta, compagna inseparabile del pastore. Oltre all’ovvio uso come strumento da taglio le foto ne documentano altri come bastone o impensabili come sgabello.
O usata come martello, dalla parte opposta della lama, per percuotere “cuzzuliari” (da cozzo, retro dell’accetta) i campani delle capre e accordarli armonicamente.
Un’immagine di Francesco De Cristo del 1932 ritrae un pastore d’Aspromonte con un’accetta dal manico più lungo rispetto a quello oggi in uso in questa montagna. Di analoghe dimensioni, detta gaccia, si usa oggi nelle montagne di Verbicaro dove la vedete impugnata da ‘zi Felice Lucchese e dall’amico Francesco Bevilacqua. Il lungo manico facilita il taglio di rami dagli alberi per foraggiare con le fronde gli animali ma è anche un’arma micidiale.
Necessarie per mantenerla affilata sono le mole.
Infine, la progenitrice di tutte le accette attuali: l’ascia preistorica in bronzo come quella da me trovata in Aspromonte circa due anni fa. Ma ancor più antiche sono le asce in pietra.
Per esempio, l’ascia del Paleolitico inferiore trovata nel 1925 a Pietra Salva (Delianuova) dal prof. Francescantonio Leuzzi. Nella foto scattata dal Leuzzi quasi un secolo fa si nota la mancanza di copertura arborea tale da rendere imponente il masso, nascosto invece ora da un fitto bosco.
O ancora le asce di pietra del Neolitico che furono trovate a Roccaforte del Greco, Bova e Roghudi nei primi anni del Novecento ed esposte al Museo Etnografico Pigorini di Roma.
Chiamate cugni i lampu secondo la tradizione popolare che riteneva fossero oggetti generati dai fulmini, questi fulmini pietrificati venivano spesso conservati come amuleti, perché si credeva che portassero fortuna o protezione.
Concludo con un gustoso episodio che ha come protagonista l’accetta. È tratto da Mio nonno Rocco di Rocco Palamara. Racconta di uno scontro tra casalinoviti
“La cosa li spiazzò anche perché l’uomo che si trovarono davanti era completamente nudo e con una grossa scure sottomano. Nella fretta del momento mio nonno aveva optato per l’ascia anziché le mutande e pur tuttavia, propenso più alla pace che alla guerra, domandò loro sinceramente:
– Dite a me, quanti litri volete?
– C’è lo deve dare tuo figlio il vino! – gli urlo u ‘Nnicu lanciandosi in avanti per introdursi dentro casa.
Allora mio nonno, passando alla seconda opzione, alzò la scure e gli assestò un colpo talmente micidiale da spaccarlo in due se non fosse che l’altro, nel suo slancio in avanti, superò la lama e la botta la prese solo di manico.”

Fonti: Bollettino di Paletnologia italiana anno 1933; Rovine di Calabria di F. Nucera